martedì 23 marzo 2010

La Fed da una spinta ai mercati

Questo è un estratto del report "Top Down Outlook" pubblicato lo scorso fine settimana. Per una prova di un mese vai sul sito www.matrada.it

La decisione della Fed di confermare, al termine dell’incontro di politica monetaria che si è tenuto nel corso della settimana, che i tassi resteranno invariati per un periodo di tempo esteso, per quanto ampiamente attesa dagli economisti, è stata accolta con particolare favore dai mercati finanziari internazionali. I maggiori indici azionari internazionali hanno, infatti, esteso il trend al rialzo delle ultime settimane ed i mercati obbligazionari hanno visto i rendimenti restare praticamente invariati nonostante i dati economici pubblicati nel corso dell’ultima settimana in Usa siano stati generalmente migliori delle attese.
Con i tassi sui Fed Fund che dovrebbero restare fermi almeno per altri 4-6 mesi – il tempo con cui il mercato ha tradotto la definizione di “periodo esteso” senza essere smentito chiaramente dalla Fed – le condizioni per una prosecuzione del trend al rialzo dei mercati azionari, in particolare con riferimento a quelli statunitensi, sembrano essere ancora ben presenti, nonostante dopo il recente rally la valutazione dello S&P500, con un rapporto P/utile medio degli ultimi 10 anni sopra 20, inizi a sembrare un po’ troppo elevata.
A dare fiducia sulle prospettive del mercato azionario è soprattutto la considerazione che fino a quando la Fed non inizierà ad alzare i tassi sui Fed Fund la curva dei rendimenti continuerà a restare molto ripida, con il differenziale tra i governativi a 10 anni e quelli a 3 mesi che resta ben al di sopra dei 300bp. Come avevamo evidenziato nel Global Strategy Weekly dello scorso 18 gennaio (“Cosa ci sta dicendo la curva dei rendimenti”) una pendenza della curva dei rendimenti molto elevata è, infatti, un segnale positivo non solo con riferimento all’andamento della crescita economica (gli studi accademici del passato indicano che le possibilità di una recessione con una curva dei rendimenti così elevata sono praticamente a 0) ma anche per l’andamento del mercato azionario statunitense.
Dal 1953, infatti, una strategia basata sul comprare l'S&P500 quando la curva dei rendimenti è positiva e uscirne investendo in T-Bill quando la curva dei rendimenti è invertita avrebbe guadagnato un 7,7% medio annuo composto, contro il 7,3% di una strategia buy e hold, senza considerare i rendimenti che si sarebbero ottenuti investendo in T-Bill nei mesi in cui non si investiva nel mercato azionario. Il rendimento medio mensile quando lo spread è positivo è 0,74% e quando è negativo è -0,2%. Quando il differenziale di rendimento è superiore al 3% come ora, situazione che si è verificata in 64 mesi a partire dal 1953 (il 10% del totale), l'S&P500 ha guadagnato un rendimento medio mensile dello 0,5%. Per questo motivo, qualora il differenziale di rendimento dovesse restare sopra il 3%, ci si può aspettare una performance positiva per l'S&P500 nei prossimi mesi, ma inferiore rispetto al rendimento medio mensile di lungo periodo (+0,65% dal 1953). Una performance positiva ma leggermente inferiore alla media sarebbe per altro in linea con quanto indicato dalla leggera sopravvalutazione del mercato.
Il motivo principale alla base della buona performance dello S&P500, ma più in generale di tutti i mercati azionari, in presenza di una curva dei rendimenti molto ripida è che questa è stata solitamente accompagnata da una crescita sostenuta degli utili aziendali negli anni a venire. Tale relazione è chiaramente mostrata dal grafico seguente che mette a confronto l’andamento del differenziale tra i governativi a 10 anni e quelli a 2 anni e l’andamento degli utili aziendali tratti dai dati di contabilità nazionale nei tre anni seguenti.

La pubblicazione venerdì 26 dei dati finali di contabilità nazionale di Q4 (la crescita del Pil non dovrebbe essere rivista rispetto al 5.9% q/q annualizzato della stima preliminare) dovrebbe del resto confermare come gli utili societari una volta tenuto conto della giusta valutazione delle scorte e degli ammortamenti, si stiano riprendendo, dopo il forte calo nel corso degli ultimi due anni e mezzo: dopo essere cresciuti del 10.7% q/q in Q3 ’09 dovrebbero salire di un ulteriore 3.8%, pur restando al di sotto del picco di Q3 ’06 di quasi il 15%.
Anche il mercato obbligazionario sarà fortemente influenzato nel breve dalla decisione della Fed di lasciare i tassi invariati per un periodo esteso. Il mancato rialzo dei tassi, infatti, dovrebbe fare sì che l’appiattimento della curva dei rendimenti che si può attendere nei prossimi mesi sia rimandato. Solitamente, infatti, una curva dei rendimenti molto ripida è solitamente stata seguita da un appiattimento della stessa, con un calo dei tassi a lungo termine e un aumento dei tassi a breve termine.
Tuttavia riteniamo che le attese del consensus degli economisti raccolto dalla Federal Reserve Bank di Filadelfia lo scorso mese di dicembre nel sondaggio Livingston secondo cui i tassi del Governativi statunitensi a 10 anni potrebbero salire al 4,1% alla fine del 2010, e al 4,64% entro la fine del 2011 riflettano assunzioni troppo ottimistiche sulle prospettive di crescita dell’economia statunitense e troppo pessimistiche sull’inflazione nei mesi a venire.
Infatti, nonostante i segnali di recupero emersi nel corso degli ultimi mesi, il potenziale di crescita dell’economia statunitense dovrebbe essersi ridotto in maniera notevole a causa della crisi degli ultimi due anni. In particolare, il processo di deleveraging da parte di famiglie e imprese dovrebbe pesare sulla crescita economica ancora per diversi anni.
I dati pubblicati in settimana hanno, invece, evidenziato come non ci siano segnali di un pressioni inflazionistiche nel breve termine. Al contrario, in febbraio l’inflazione core è scesa all’1.3% y/y, minimo dal febbraio 2004, mentre l’inflazione totale è scesa dal 2.6% y/y al 2.1% y/y.

Salvo il caso di un’impennata improvvisa dell’inflazione, di cui però appare difficile immaginare le cause, la parte a lunga dei rendimenti statunitensi sembra offrire ancora buoni margini di crescita, con gli investitori europei che potrebbero beneficiare anche dell’apprezzamento del Dollaro, il cui trend al rialzo nei confronti dell’Euro sembra avere ancora tanta strada da percorrere.

mercoledì 17 marzo 2010

La Fed conferma: nessun rialzo nel breve

Il brivido per gli investitori è durato solo qualche secondo. Giusto il tempo di leggere velocemente le prime righe del Comunicato che la Fed ha rilasciato al termine della riunione di ieri, più positivo nella prima parte sullo stato di salute dell’economia statunitense di quanto probabilmente anticipato dalla maggior parte degli esperti di mercato, ed arrivare al terzo paragrafo. E qui non ci sono state spiacevoli sorprese: “Il Comitato continua ad anticipare che le condizioni economiche, inclusi un basso tasso di utilizzo delle risorse, un trend dell’inflazione contenuto e aspettative sull’inflazione stabili, dovrebbero continuare a richiedere livelli sui Fed Fund eccezionalmente bassi per un periodo esteso”.
La frase intorno al quale si giocava tutto l’interesse sulla riunione di Fomc di ieri, per la sua promessa di tassi fermi per un periodo che può essere considerato di almeno 4-6 mesi, è stata confermata in pieno, in linea con quanto era atteso dal consensus degli economisti. Non sono, quindi, servite le manifestazioni di perplessità nel corso delle ultime settimane di alcuni presidenti delle Fed regionali, tra cui quelle di Thomas Hoening della Fed di Kansas City, che ha espresso il proprio dissenso formale nel Comunicato, a far cambiare idea al Fomc sullo scenario più possibile di politica monetaria nei mesi a venire. Secondo Hoening, il riferimento a tassi bassi per un periodo esteso non è più necessario perché “potrebbe portare ad un incremento degli squilibri finanziari e aumentare i rischi sulla stabilità economica e finanziaria di lungo periodo”. James Bullard della Fed di Saint Louise, invece, pur essendo stato critico nei confronti di tale frase nelle scorse settimane non ha manifestato alcun dissenso formale, come del resto aveva lui stesso anticipato.
La Fed è comunque parsa a guardare agli ultimi progressi economici con più fiducia. Ad esempio, con riferimento al mercato del lavoro, è stato evidenziato come questo si stia stabilizzando, mentre in gennaio era stata segnalata solo una riduzione del peggioramento, anche se le imprese continuano a restare “riluttanti” nell’incremento il numero di occupati. La Fed ha anche evidenziato il forte miglioramento degli investimenti in equipment e software da parte delle aziende, un segnale di come il settore industriale si stia riprendendo dalla forte contrazione del periodo 2008/2009. In senso negativo, la Fed ha sottolineato come gli investimenti in strutture da parte delle aziende sono in discesa e le costruzioni di case rimangono invariate a livelli depressi.
Infine è da segnalare come la Fed abbia confermato, in linea con quanto pianificato in precedenza, che il programma di acquisto di titoli con alle spalle mutui immobiliari emessi dalle GSE per USD1250bn e di debito emesso direttamente dalle GSE per USD175bn finirà il 31 marzo mentre l’ultimo programma di sostegno alla liquidità ancora in vigore, il Term Asset-Backed Securities Loan Facility, chiuderà come preventivato il prossimo 30 giugno con riferimento ai nuovi titoli con collateral di mutui commerciali e il 31 marzo con riferimento a prestiti con tutti gli altri tipi di collateral.
Il tono del Comunicato pubblicato al termine della riunione di ieri, per la sottolineatura dei progressi dell’economia statunitense, sembra aumentare le possibilità che la Fed rimuova la promessa di tassi fermi per un periodo esteso al termine della riunione del prossimo 28 aprile, o al più tardi in quella del 23 giugno. Tuttavia tale decisione rimane tutt’altro scontata. Per quanto in netto miglioramento, l’economia statunitense rimane ancora molto fragile. A ricordarlo proprio ieri sono stati il Segretario al Tesoro Geithner, il direttore del bilancio Orszag e il presidente dei consiglieri economici del Presidente Obama Romer, che hanno evidenziato come il tasso di disoccupazione non dovrebbe scendere sotto il 9.7% quest’anno, con qualche incremento nel breve termine che appare possibile. Con un’inflazione che rimane contenuta ed un output gap che secondo il Congressional Budget Office che dovrebbe restare negativo per il 6% per tutto il 2010 e non dovrebbe chiuderi prima del 2015 la Fed potrebbe mantenere tassi fermi molto a lungo ed alzarli in maniera solo molto graduale nei mesi successivi. La stima di consensus di tassi allo 0,75% a fine anno, per quanto uno scenario perfettamente plausibile, potrebbe peccare in eccesso.

martedì 16 marzo 2010

Fed: tutto ruota intorno ad una frase

“Il Comitato continua ad anticipare che le condizioni economiche…dovrebbero richiedere un livello dei tassi sui Fed Fund eccezionalmente basso per un periodo esteso”. L’attenzione sulla riunione del Fomc in calendario oggi si concentrerà tutta intorno alla conferma o meno, nel comunicato che sarà pubblicato al termine dell’incontro, del riferimento al fatto che i tassi sui Fed Fund resteranno all’attuale livello ancora per un periodo esteso, così come avvenuto nel Comunicato dello scorso 26 gennaio. Tale riferimento è stato interpretato dal mercato come un’assicurazione che i tassi non saranno alzati per almeno 4-6 mesi. Dopo che molte delle misure straordinarie di sostegno alla liquidità sono state rimosse nel corso degli ultimi mesi e che il tasso di sconto è stato alzato a sorpresa lo scorso giovedì 18 febbraio dallo 0,5% allo 0,75% (sorprendente era stato il timing dell’operazione, al di fuori delle riunioni prestabilite, non la sua implementazione che era stata anticipata dalla stessa Fed in precedenza), il basso livello dei tassi sui Fed Fund rimane il segno più evidente della politica monetaria ultra-espansiva adottata dalla Fed nel corso degli ultimi due anni.
La decisione della Fed a tal proposito è quanto mai incerta, anche se lo scenario più probabile è che tale riferimento venga mantenuto per non dare l’impressione al mercato che una fase restrittiva di politica monetaria possa iniziare nel breve (i futures sui Fed Fund scontano con possibilità prossime al 50% un rialzo dei tassi di 25bp entro settembre). Le ultime parole del presidente Bernanke nella sua testimonianza dello scorso 24 febbraio di fronte al Comitato sui Servizi Finanziari della Camera e quanto dichiarato dopo la decisione di alzare il tasso di sconto fanno pensare che la Fed non sia ancora pronta a comunicare al mercato un prossimo rialzo dei tassi di interesse. Bernanke, infatti, ha ribadito che i tassi resteranno bassi per un periodo esteso, mentre nel comunicato per annunciare il rialzo del tasso di sconto, la Fed ha comunicato che tale decisione era solo un adeguamento tecnico e non comportava modifiche sulle prospettive di politica monetaria.
Dall’altra parte, però, alcuni elementi fanno pensare che la Fed potrebbe essere pronta a tornare sui suoi passi già da oggi.
In primo luogo all’interno della Fed si sta facendo sempre più strada l’idea che un livello dei tassi così basso non sia più necessario. Se infatti lo scorso 26 gennaio solo il presidente della Fed di Kansas City Thomas Hoening si era dichiarato contrario a confermare tale riferimento, nel corso delle ultime settimane anche altri presidenti di Fed regionali hanno espresso delle riserve contro la necessità di mantenere tassi così bassi ancora a lungo. Ad esempio, anche il presidente della Fed di Dallas Richard Fisher, di quella di Saint Louise James Bullard e di quella di Philadelphia Charles Plosser hanno espresso delle riserve contro tale riferimento. Bullard, l’unico dei tre con diritto di voto nelle riunioni del Fomc quest’anno, ha dichiarato di essere meno paziente nel confermare tale frase, anche se non ha in programma di esprimere un dissenso formale nei Comunicati. Bullard lo scorso 4 marzo si è augurato che il Fomc trovi un altro modo per esprimere le prospettive di politica monetaria nei prossimi mesi, anche se in precedenti testimonianze aveva comunque detto che i tassi potrebbero restare all’attuale livello sino al 2011.
In secondo luogo i dati macroeconomici pubblicati nel corso delle ultime settimane hanno evidenziato come la ripresa economica statunitense stia prendendo sempre più forza, nonostante alcuni segnali di incertezza. L’andamento migliore delle attese sia del mercato del lavoro che delle vendite al dettaglio nel mese di febbraio, infatti, fanno presupporre che le avverse condizioni meteorologiche nel corso del periodo di riferimento potrebbero avere un impatto sulla ripresa economica solo limitato, mentre il settore industriale, come evidenziato dallo stazionamento degli indici di fiducia delle imprese su valori coerenti con una crescita del comparto e dall’andamento migliore delle attese della produzione industriale in febbraio, dovrebbe continuare a trarre giovamento dalla ripresa delle esportazioni.
La rimozione del riferimento a tassi sui Fed Fund eccezionalmente bassi per un periodo esteso, che se non sarà deciso oggi sarà rimosso o nel corso della riunione del 28 aprile o in quella del 23 giugno, potrebbe in un primo momento essere presa in maniera negativa dai mercati finanziari, ma andrebbe considerato un segnale positivo sullo stato di salute dell’economia statunitense. Sarebbe, infatti, il segnale che l’economia è ora in grado di camminare con le proprie forze e che i rischi di spirale deflazionistica sono stati accantonati.
Per quanto riguarda il resto del Comunicato non ci attendiamo grosse variazioni rispetto a quello del 26 gennaio. Dovrebbe essere confermato il miglioramento del quadro economico, con il mercato del lavoro che ha smesso di peggiorare, le spese personali in leggero miglioramento e gli investimenti aziendali in equipment e software, ma non in strutture, in ripresa. Le pressioni inflazionistiche dovrebbero continuare ad essere viste come contenute. L’unica novità potrebbe essere una segnalazione che le cattive condizioni meteorologiche possano avere un impatto sulla crescita nel breve, ma sarebbe una novità di poco conto.

venerdì 12 marzo 2010

Altri giudizi negativi sull'economia del Regno Unito

Nel post L'economia britannica si conferma in difficoltà avevamo evidenziato come l'andamento inferiore alle attese della produzione industriale nel mese di gennaio fosse un ulteriore segnale di come la ripresa dell'economia britannica possa rivelarsi deludente nel breve periodo. Un calo del Pil in Q1 è, quindi, una prospettiva tut'altro che da escludere. Tali dati confermano la nostra analisi pubblicata sul Top Down Outlook dello scorso 8 marzo, in cui consigliavamo di stare alla larga da tutte le asset class denominate in Sterline.
Il Telegraph di oggi riporta un articolo Europe's banks brace for UK debt crisis in cui il direttore della ricerca sul reddito fisso di Unicredit Kornelius Purps da giudizi molto negativi sulle prospettive dell'economia britannica, dando ulteriore forza alle nostre argomentazioni. Purps dice che il rating AAA del Regno Unito è molto a rischio, la Sterlina potrebbe scendere ulteriormente e i rendimenti dei Gilt salire di 30-50 bp.
Unicredit si spinge a dire che l'outlook del Regno Unito sia peggiore di quello greco a causa della possibile maggiore instabilità politica. Per quanto quest'ultima osservazione sia esagerata, sostanzialmente concordiamo con le conclusioni di Unicredit: non investire in asset britannici in questo momento.

Vendite al dettaglio Usa: meglio delle attese nonostante le tempeste

In febbraio le vendite al dettaglio sono risultate migliori delle attese, salendo dello 0,3% m/m. Le attese di consensus erano per un ribasso dello 0.2% m/m. Ancora più positivo è stato il rialzo del dato ex-auto: 0,8% m/m contro +0,1% m/m. La revisione al ribasso del dato di gennaio (da + 0,5% m/m a +0,1% m/m) riduce solo in parte la positività del dato. Il contributo alla crescita del Pil dei consumi personali in Q1 potrebbe, quindi, essere maggiore del previsto. Con il mercato del lavoro che dovrebbe migliorare nel corso dei prossimi mesi anche le spese personali potrebbero crescere ad un ritmo superiore, anche se i ritmi degli anni pre-scoppio della bolla non dovrebbero essere più raggiunti. Il processo di deleveraging da parte delle famiglie dovrebbe ridurre la crescita dei consumi. Tale processo è ancora ben lungi dall’essere terminato, ma sta continuando ad un buon ritmo, come evidenziato dal rapporto trimestrale Flow of Funds della Fed pubblicato Giovedì 11, che ha evidenziato un calo dell’1,2% del debito delle famiglie. Il debito delle imprese è sceso dell’3,2%, mentre quello governativo è aumentato del 12,6%.

giovedì 11 marzo 2010

Tassi invariati per la Banca Centrale dell Nuova Zelanda

La Banca Centrale Neo Zelandese (RBNZ) ha lasciato i tassi invariati al 2,5% al termine della riunione di politica monetaria di oggi. Il Governatore Bollard ha evidenziato come l'atteggiamento delle famiglie rimanga cauto con riferimento al mercato immobiliare e gli investimenti delle imprese siano deboli nonostante il rialzo della fiducia. L'inflazione rimane intorno al 2% ed è attesa rimanere attorno a tale livello nel medio periodo. La RBNZ ha confermato che intende iniziare a rimuovere lo stimolo di politica monetaria a partire dalla metà del 2010. In linea con la stima prevalente tra gli economisti interpellati da Bloomberg, riteniamo che il primo rialzo dei tassi arriverà a giugno. I tassi, a nostro avviso, dovrebbero poi salire al 3,5% entro la fine del'anno.

Australia: rallenta il mercato del lavoro

In febbraio l'andamento del mercato del lavoro australiano è stato inferiore alle attese: il numero di posti di lavoro creati è stato di 400 contro attese di consensus di 15 mila. Il tasso di disoccupazione è salito dal 5,2% al 5,3%. La creazione inferiore alle attese e a quanto avvenuto nel corso degli ultimi mesi è in linea con lo scenario che vede la RBA alzare i tassi nel 2010 ad un ritmo inferiore a quanto avvenuto nel corso dell'ultima parte del 2009. Le nostre attese sono per un rialzo dei tassi al 4,75% con un rialzo ogni paio di mesi. In aprile i tassi dovrebbero restare invariati al 4%.

mercoledì 10 marzo 2010

L'economia britannica si conferma in difficoltà

In UK sono stati pubblicati oggi i dati sulla produzione industriale in gennaio, che sono risultati inferiori alle attese di consensus: la produzione industriale è scesa dello 0,4% m/m contro attese di consensus di un rialzo dello 0.3% m/m. Ancora più ampio il calo della produzione manufaturriera: -0,9% m/m. L'Ufficio nazionale di statistica ha evidenziato come le avverse condizioni meteorologiche, in linea con quanto da noi evidenziato nel post "Aspettando tempi migliori", possano avere avuto un impatto negativo sul dato.
Tuttavia il dato pubblicato oggi evidenzia come la situazione economica nel Regno Unito rimanga molto fragile, con il Pil che in Q1 '10 potrebbe restare poco variato, se non addirittura in calo.
Nel nostro ultimo "Top Down Outlook" abbiamo evidenziato i motivi per cui investire in questo momento sugli asset britannici possa essere quanto mai rischioso, soprattutto alla luce delle possibilità che la Sterlina possa ulteriormente indebolirsi nei mesi a venire. Il dato sulla produzione industriale pubblicato oggi non fa che confermare le nostre convinzioni. 

Balzo della produzione in gennaio: notizia positiva per l’Euro

In Gennaio la produzione industriale è salita più delle attese sia in Francia sia in Italia: rispettivamente dell’1,6% m/m e del 2.6% m/m. Le attese di consensus erano per un rialzo dello 0.1% m/m in Francia e dello 0.7% m/m in Italia. Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno la produzione è aumentata del 3,5% in Francia e dello 0,1% in Italia. I dati pubblicati oggi sono un segnale positivo sull’andamento dell’economia dell’area Euro e aumentano la fiducia sulle prospettive di recupero nei prossimi mesi dopo che la produzione industriale tedesca di gennaio (dato pubblicato lo scorso lunedì) aveva deluso le attese degli investitori con una crescita dello 0.6% m/m contro attese di consensus di +1% m/m. Non a caso l’Euro è tornato a recuperare terreno contro il Dollaro, spingendosi ad un passo da 1.36, ed il Bund tedesco ha perso terreno.

martedì 9 marzo 2010

Euro debole e sacrifici, unica ricetta per la Spagna

Speciale sulla situazione in Spagna dello scorso 8 febbraio (www.matrada.it)

Sembra non esserci pace per i PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia Spagna). Una volta che la situazione in Grecia sembrava andare incontro ad una possibile stabilizzazione dopo l’avvallo della Commissione Europea al piano di rientro del deficit presentato dal Governo greco (anche se il suo cammino potrebbe rivelarsi tortuoso per le proteste già annunciate dai sindacati greci), nel corso della settimana sono esplose prepotentemente le preoccupazioni legate alla situazione dei conti pubblici in Portogallo e Spagna.
In Portogallo ha destato scalpore il negativo andamento dell’asta di obbligazioni governative a 12 mesi tenutasi nel corso della settimana appena conclusa, in cui le autorità portoghesi sono state obbligate a portare il quantitativo offerto da EUR500 milioni ad EUR300 milioni per evitare di pagare un rendimento troppo alto. Le tensioni all’interno del Governo sull’approvazione di un piano di austerity sono state un ulteriore motivo di preoccupazione per il Paese.
Tuttavia, sono soprattutto le condizioni in Spagna a destare le maggiori preoccupazioni, alla luce del maggiore peso della sua economia all’interno dell’area Euro. La Spagna, insieme all’Irlanda, era stata la maggiore beneficiaria della bolla sul mercato immobiliare che si era creata nell’ultimo decennio e ora sta pagando pesantemente le conseguenze degli squilibri che questa ha lasciato. La corsa all’acquisto di case e l’incremento dei prezzi ha avuto la conseguenza di aumentare in maniera esorbitante l’indebitamento di famiglie e imprese, finanziato attraverso un forte deficit delle partite correnti. Questo era salito sino a oltre l’11% del Pil nel periodo tra il terzo trimestre del 2007 ed il primo trimestre del 2008, e solo nella parte centrale del 2009 si è portato a livelli più sostenibili, scendendo al 4.4% del Pil.
Il Debito dell’economia spagnola rimane, però, su livelli esorbitanti. Secondo un recente studio di Mckinsey group la Spagna vanta un debito totale come percentuale rispetto al Pil tra i più elevati tra i paesi presi in considerazione. Quello che più preoccupa è che tale rapporto, al 366% del Pil nel secondo trimestre del 2009, appare destinato a crescere ulteriormente alla luce del forte peggioramento delle finanze pubbliche atteso nel corso dei prossimi anni. Come evidenziato in uno studio della commissione Europea del Novembre 2007 (“Asset boom and tax receipts: The case of Spain, 1995-2006”), infatti, l’elasticità delle entrate spagnole rispetto alla crescita del Pil era stata superiore all’unità nel corso del periodo di riferimento grazie al boom del mercato immobiliare: una volta venuto meno questo boom le entrate hanno sofferto oltre modo. A differenza di quanto avvenuto nel corso del 2008 e nel 2009, la politica fiscale del Governo potrebbe farsi restrittiva nei prossimi anni per cercare di porre un freno al deficit di bilancio che potrebbe rimanere sopra il 10% sia nel 2010 sia nel 2011, portando il rapporto debito/Pil a ridosso dell’80% dal 36% del 2007.
Un deleveraging da parte di famiglie (il cui debito è pari all’87% del Pil) e, soprattutto, imprese (141% del Pil) appare inoltre molto probabile nel corso dei prossimi anni, con conseguenze molto negative su quello che sarà il tasso di crescita dell’economia nel prossimo futuro. Non stupisce, quindi, che sia la Commissione Europea sia il Fondo Monetario Internazionale prevedano una nuova contrazione del Pil nel 2010 per la Spagna, che sarebbe, a quel punto, l’unica tra i maggiori paesi della zona Euro a non uscire dalla recessione. Con queste premesse, il tasso di disoccupazione, attualmente al 19.5%, potrebbe facilmente superare il 20% ed avvicinarsi alle più pessimistiche stime di una disoccupazione al 25%.
Uscire da questa situazione per l’economia spagnola non sarà affatto semplice né veloce. Come evidenziano i grafici in pagina, il boom degli ultimi anni ha fatto sì che l’economia spagnola perdesse competitività rispetto ai partner europei a causa di un forte incremento del costo del lavoro per unità di prodotto e del tasso di cambio reale. La produttività del sistema economico, inoltre, è scesa e si trova sotto il livello del 2000. Riguadagnare competitività nei confronti degli altri partner europei, quindi, sarà un processo molto lungo e dovrà necessariamente passare da una crescita di inflazione e salari più bassa rispetto agli altri paesi europei, se non negativa.
Nel breve, quindi, l’unico elemento di spinta all’economia potrebbe arrivare da un calo dell’Euro, che ne aumenti la competitività sui mercati extra-Euro. Il ribasso della valuta unica europea, provocato proprio dalle tensioni in Spagna e Grecia, nel corso delle ultime settimane va nella giusta direzione, anche se la strada da percorrere è ancora lunga. Come abbiamo più volte sottolineato nei nostri “Global Strategy Weekly” pubblicati nelle scorse settimane, infatti, l’Euro appare sopravvalutato nei confronti del Dollaro sulla base della Parità del Potere di Acquisto (PPP) calcolata dall’OCSE e un ritorno al fair value di 1.17 appare una possibilità tutt’altro che da escludere in un’ottica di medio periodo. La discesa dalla valuta unica europea sarebbe almeno un motivo di consolazione per gli altri paesi dell’area Euro qualora questi fossero costretti ad intervenire per salvare uno di questi paesi in piena crisi qualora la situazione dovesse peggiorare.


Come leggere il rialzo del tasso di sconto da parte della Fed

Speciale sul rialzo del tasso di sconto della Fed scritto il 22 febbraio (www.matrada.it)

Che avrebbe alzato il tasso di sconto in un futuro non troppo lontano la Fed lo aveva annunciato nelle ultime settimane. Nella testimonianza di fronte al Congresso dello scorso 10 febbraio il presidente della Fed Bernanke ha detto che i tassi sarebbero stati alzati dopo non molto tempo e nelle minute della riunione del 26/27 gennaio i membri del Fomc avevano rilevato come un rialzo sarebbe presto stato appropriato. Tuttavia il rialzo di 25 pb allo 0,75% del tasso di sconto deciso lo scorso giovedì ha comunque colto di sorpresa i mercati che non si aspettavano una mossa così presto. E, soprattutto, forse non si aspettavano una mossa al di fuori delle tradizionali riunioni del Fomc, quando solitamente queste decisioni sono prese. L’andamento migliore delle attese di alcuni degli ultimi dati economici, in particolare l’andamento della produzione industriale, degli indici di fiducia delle imprese e del leading indicator di gennaio, oltre che il recupero del mercato azionario dopo le prese di profitto di inizio anno, potrebbero avere convinto la Fed che nel corso dei prossimi mesi potrebbe essere necessario ridurre le politiche di sostegno all’economia e della necessità di dare subito un segnale al mercato.
Il rialzo del tasso di sconto fa seguito alla chiusura in precedenza, in linea con quanto era stato stabilito nei mesi precedenti, di una serie di misure di sostegno al mercato del credito ed è stato concepito dalla Fed come parte del processo di normalizzazione delle pratiche di prestito della Fed. La Fed ha fatto in modo di dirci che la mossa è solo un adeguamento tecnico che non rappresenta un cambiamento di prospettiva della politica monetaria per non scatenare le ipotesi di un rialzo dei tassi sui Fed Fund nel breve.
Il rialzo del tasso di sconto è stata la prima mossa sui tassi di interesse negli Stati Uniti dal dicembre 2008, quando la Fed aveva abbassato il tasso di sconto allo 0,5% e ridotto il tasso obiettivo sui Fed Fund allo 0-0,25%. L’incremento del tasso di sconto da parte della Fed ha l’obiettivo di riportare lo spread tra quest’ultimo e i tassi sui Fed Fund allo 0.50%, incoraggiando le banche a prendere a prestito sul mercato del credito a breve termine piuttosto che usare i prestiti della Fed. Prima dello scoppio della bolla sul mercato del credito nell’estate del 2007 tale spread si attestava all’1% ed era stato ridotto allo 0,50% a metà 2007 e poi ad appena lo 0,25%. L’utilizzo del tasso di sconto era per altro già sceso in maniera notevole nel corso degli ultimi mesi: dai 65,1 miliardi di Dollari presi a prestito dal settore bancario lo scorso anno si era scesi ai 14,1 miliari del 17 febbraio.
Tuttavia, poiché la decisione non influirà direttamente sui tassi sui Fed Fund, non dovrebbe avere conseguenze sui prestiti al settore privato.
La decisione della Fed di alzare il tasso di sconto va nella direzione della rimozione della politica monetaria ultra-espansiva adotta dalla Fed nel corso degli ultimi due anni, con il rialzo dei tassi sui Fed Fund che dovrebbe essere l’ultimo passaggio. Il prossimo passo da parte della Fed dovrebbe essere quello di abbandonare il suo impegno a mantenete i tassi sui Fed Fund su un livello basso per un periodo di tempo esteso. Tale rimozione potrebbe essere decisa già nel corso della prossima riunione, in calendario il prossimo 27 aprile, anche se non è da escludere che la Fed, per non dare motivo agli investitori di temere una serie di rialzi nel breve, possa decidere di aspettare la riunione successiva del 22 giugno.
Ad ogni modo, rialzi dei tassi sui Fed Fund non dovrebbero essere decisi prima della seconda metà del 2010. Anzi, anche se la maggior parte delle investment bank internazionali ha anticipato a Q4 ’10 la stima sul primo rialzo dei tassi sui Fed Fund dopo quanto deciso in settimana, altri esperti di mercato continuano a ritenere che la Fed non alzerà i tassi prima del 2011. Ad esempio, è questo il caso dell’ex membro del Board of Governors Larry Meyer, ora a capo di Macroeconomic Advisers, che continua a ritenere che la Fed non alzerà i tassi prima della metà del 2011. Ma anche il presidente della Fed di Saint Louise James Bullard ha detto che le aspettative su un rialzo dei tassi sono esagerate e che i tassi potrebbero restare all’attuale livello sino al 2011.
La nostra stima è che la Fed attuerà nella seconda parte del 2010 una politica monetaria restrittiva molto più forte di quanto attualmente scontato dal mercato. Le nostre attese, infatti, sono che i tassi sui Fed Fund finiranno il 2010 all’1%. Riteniamo che la Fed, una volta normalizzatosi il ciclo economico con un recupero dell’occupazione, non attenderà troppo prima di alzare i tassi ad un livello meno straordinario per evitare il pericolo di alimentare nuove bolle speculative.
Tuttavia, l’inizio di una fase restrittiva di politica monetaria da parte della Fed nel corso dei prossimi mesi andrebbe considerato un segnale positivo sullo stato di salute dell’economia statunitense. Sarebbe, infatti, il segnale che l’economia è uscita dalla recessione, che è ora in grado di camminare con le proprie forze e che i rischi di spirale deflazionistica sono stati accantonati. Insomma, un rialzo dei tassi da parte della Fed sarebbe da considerare un segnale di fiducia sul futuro dell’economia, anche se i mercati potrebbero soffrirne in un primo momento.

lunedì 8 marzo 2010

Aspettando tempi migliori

Global Strategy Weekly del1 marzo (per una prova del report settimanale Top Down Outlook vai sul sito www.matrada.it)

I dati economici pubblicati nelle ultime settimane sono stati generalmente più deboli del previsto sia negli Stati Uniti sia in area Euro, con il risultato di aumentare le incertezze sulla sostenibilità della ripresa economica in corso e ad aumentare le pressioni al ribasso sui principali mercati azionari internazionali.
Tra i dati economici peggiori delle attese, negli Stati Uniti è stato particolarmente deludente l’andamento dell’indice di fiducia dei consumatori del Conference Board. L'indice è sceso di oltre dieci punti portandosi a 46, il valore più basso dall'aprile del 2009. Le attese del consensus degli economisti raccolto da Bloomberg aveva previsto un calo da 55,9 in gennaio (dato che è stato poi rivisto a 56,3) a 55. Il calo della fiducia è stato generalmente attribuito al negativo andamento del mercato del lavoro nel corso delle ultime settimane, evidenziato dal rialzo delle richieste iniziali di sussidi di disoccupazione, e al peggioramento delle opinioni sull’operato dell’amministrazione Obama. Il ribasso della fiducia dei consumatori aumenta la cautela sulle prospettive delle spese dei consumatori, nonostante il fatto che gli studi accademici pubblicati negli ultimi anni non abbiano trovato una conclusione definitiva sul legame tra la fiducia e la spesa dei consumatori.
Per quanto riguarda il settore immobiliare indicazioni negative sono arrivate dai dati sulle vendite di nuove case, scese in gennaio dell’11% m/m, portandosi al minimo storico di 309 mila ed evidenziando che l'estensione del credito d'imposta governativo per chi compra casa potrebbe non essere sufficiente per riaccendere la domanda nel breve termine. Inoltre, gli investitori sono stati delusi dal calo degli ordini beni durevoli ex-trasporti (-0,6% m/m contro attese di mercato di +1% m/m) e dall’aumento delle richieste iniziali di sussidi di disoccupazione nel corso dell’ultima settimana (+22 mila a 496k).
In area Euro, è stato il negativo andamento dell’indice di fiducia delle imprese tedesche IFO a dare il via al ribasso dei mercati azionari lo scorso Martedì 23. L’IFO è sceso nel mese di febbraio per la prima volta da aprile '09 – da 95,8 a 95,2 - contro attese di mercato di un aumento a 96. L'indice ha evidenziato che l'economia tedesca, dopo essere rimasta invariata nel 4° trimestre '09, potrebbe crescere ad un ritmo molto moderato anche nei primi mesi del 2010, confermando le indicazioni negative che erano giunte nel corso delle settimane precedenti dall’indice Zew.
Le cattive condizioni meteorologiche da entrambi le parti dell’atlantico sono state generalmente considerate la ragione principale per il negativo andamento degli indicatori economici sinora pubblicati con riferimento ai primi due mesi dell’anno. Infatti, i primi due mesi del 2010 hanno visto temperature inferiori alla media stagionale e bufere di neve diffuse sia negli Stati Uniti sia nell’area Euro, con l'effetto di rallentare l'attività economica. Tali condizioni negative, poi, oltre a creare un danno economico sia diretto, per i costi legati all’emergenza, sia indiretti, per la minore produzione durante quei giorni, rendono molto più difficile il processo di destagionalizzazione dei dati da parte degli uffici di statistica.
In tal senso, il peggio dal punto di vista meteorologico potrebbe non essere ancora finito considerando che la costa est degli Stati Uniti è stata colpita anche in questi ultimi giorni da un’ondata di maltempo, con New York, ad esempio, che nelle giornate di Giovedì e Venerdì è stata ricoperta da oltre 60 centimetri di neve.
Per questo motivo, ci aspettiamo che i dati economici che saranno pubblicati nel corso delle prossime settimane per quanto riguarda gennaio e, soprattutto, febbraio possano continuare a deludere gli investitori, risultando più deboli delle attese.
Una prima prova in tal senso sarà la pubblicazione nel corso della prossima settimana dell’indice di fiducia delle imprese ISM manifatturiero e dei dati sull'occupazione di febbraio negli Stati Uniti - rispettivamente Lunedì 1 e Venerdì 5, -, mentre in area Euro nel corso della prossima settimana non è in calendario la pubblicazione di dati di particolare rilievo sull’andamento dell’attività economica. Le attese sono che l’ISM manifatturiero possa rimanere sostanzialmente invariato rispetto a gennaio, grazie alle positive prospettive delle esportazioni, mentre il mercato del lavoro dovrebbe accusare un leggero indebolimento: gli occupati nei settori non-agricolo dovrebbero diminuire di 30 mila unità nel mese di febbraio, rispetto al calo di 20 mila unità nel mese di gennaio.
Qualora l’andamento dei dati economici di gennaio e febbraio che saranno diffusi nel corso delle prossime settimane dovessero confermare i negativi risultati delle prime indicazioni sinora pubblicate, la crescita economica di Stati Uniti e area Euro nel 1° trimestre del 2010 dovrebbe rivelarsi molto più debole di quanto precedentemente previsto dagli economisti. L’economia statunitense, quindi, difficilmente dovrebbe ripetere il +5,9% q/q ann.to dell’ultimo trimestre del 2010 (rivisto da 5.7% q/q ann.to), mentre la crescita dell’area Euro potrebbe ancora una volta essere anemica dopo il +0.1% q/q del quarto trimestre del 2009.
Come risultato del deludente andamento dell’economia, gli utili aziendali nel corso del primo trimestre potrebbero essere inferiori a quanto previsto dagli analisti, esercitando nel breve termine ulteriori pressioni al ribasso sui mercati azionari e sui rendimenti obbligazionari.
Tuttavia, qualora il rallentamento di 2010 fosse dovuto solo a fattori meteorologici, possiamo aspettarci un rimbalzo dell'attività economica già nei prossimi mesi. Infatti, come evidenziato con riferimento alle vendite al dettaglio dall’economista della Fed Martha Starr-McCluer nel report “The Effects of Weather on Retail sales”, mentre i dati mensili mostrano variazioni di rilievo sulla base delle condizioni meteorologiche, i dati trimestrali evidenziano come il potere esplicativo associato con la variabile tempo è generalmente piuttosto modesto. In questo caso un rimbalzo dei mercati azionari e dei rendimenti obbligazionari è una chiara possibilità nei mesi a venire.
Tuttavia, qualora i dati economici pubblicati durante la primavera non evidenziassero alcun recupero sarebbero una chiara indicazione che l'attività economica in tutto il 2010 potrebbe essere inferiore a quanto stimato dalla maggior parte degli economisti ad inizio anno. Ciò aumenterebbe le pressioni al ribasso sui mercati azionari e sui rendimenti dei titoli Governativi (almeno con riferimento a quelli statunitensi e tedeschi) e aiuterebbe la Fed a mantenere i tassi sui Fed Fund invariati per un periodo prolungato.

Mina debito pubblico in Giappone

Global Strategy Weekly del 22 febbraio (per una prova del report settimanale Top Down Outlook vai sul sito www.matrada.it)

Nel corso delle ultime settimane, i mercati finanziari si sono concentrati sulle prospettive negative dei paesi periferici dell’area Euro, in particolare della Grecia, a causa dei loro elevati deficit e debiti pubblici. Tuttavia, anche se in maniera inferiore, le incertezze sul futuro dei conti pubblici riguardano la stragrande maggioranza dei paesi sviluppati: ad esempio, il debito pubblico in % del PIL può salire nel 2011 al 65% negli Stati Uniti (considerando però solo quelle nelle mani del pubblico), all’88,2% nel Regno Unito e all’83,7% nell’intera area Euro.
Tuttavia, il paese che potrebbe soffrire maggiormente nei prossimi anni a causa dell’elevato livello del debito pubblico è il Giappone. Infatti, il debito pubblico è cresciuto a dismisura negli ultimi due decenni (era al 59% del PIL nel 1990) e, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, potrebbe essere salito al 218% del PIL nel 2009, per poi raggiungere il 227% e il 246% rispettivamente nel 2010 e 2014. L'effetto del balzo del debito pubblico ha avuto l’effetto di più che compensare la riduzione del debito del settore privato, aumentando il livello di debito totale/PIL dal 420% nel 1995 al 471% in Q2 '09, secondo i dati di McKinsey Global Institute's. Il 1995 è stato preso come anno di riferimento in quanto è l'anno che ha visto il debito delle società non-finanziarie raggiungere il livello più alto (148% del PIL), dopo il quale è iniziato un processo di deleveraging finito solo nel 2005 (il debito è sceso al 91% del PIL nel 2005 e ora si attestano al 95% del PIL).
Tuttavia, nonostante l'enorme aumento del debito pubblico e l’ulteriore incremento atteso nei prossimi anni, i rendimenti dei titoli di Stato Giapponesi sono rimasti a livelli molto bassi. Il rendimento del decennale, ad esempio, è stato inferiore al 2% dal 1998, senza variazioni significative in tale periodo. Ora, quindi, il Giappone registra sia il più alto debito pubblico sia i rendimenti dei Governativi più bassi tra i paesi sviluppati, in contrasto con quanto la teoria economica prescriverebbe.
Le ragioni di questo “conundrum” sono spiegate in un recente studio dal titolo "The Outlook for Financing Japan’s public debt" dell'economista del FMI Kiichi Tokuoka. Secondo l'economista i fattori alla base del basso e costante rendimento dei Governativi giapponesi sono:

1) Elevato tasso di risparmio delle famiglie: questo è stato di circa il 10% fino al 1999, quando ha cominciato a diminuire rapidamente;

2) Forte “home bias”: I governativi giapponesi sono stati finanziati in gran parte da investitori nazionali (94% alla fine del 2008), che solitamente presentano un comportamento più stabile degli investitori stranieri. Il forte orientamento verso gi investimenti domestici è guidato dalle famiglie, la cui propensione al rischio è molto debole. La quota di risparmi investita in liquidità e depositi a breve da parte delle famiglie è pari al 55% (alla fine dell’anno fiscale 2008), ben al di sopra del 16% in USA, e gran parte di questi fondi è investito in obbligazioni governative attraverso il settore bancario;

3) L'esistenza di grandi e stabili investitori istituzionali come la Japan Post Bank e il Government Pension Investment Fund;

4) I recenti flussi di risparmio di grandi dimensioni provenienti dal settore aziendale.

Tuttavia, Tokuoka ha spiegato che cambiamenti strutturali nel bilancio delle famiglie e degli attori chiave del mercato potrebbero indebolire la capacità di assorbimento del mercato dei titoli di stato giapponesi, rendendoli più sensibili al livello del debito. Per fare un esempio, il ruolo delle famiglie nel fornire fondi al mercato dei governativi rischia di diminuire poiché il tasso di risparmio può ulteriormente cadere dal livello attuale (2,2% nel 2007). Una simulazione dell'autore ha indicato che, in base alle tendenze attuali, il debito pubblico lordo nel 2015 potrebbe superare le attività finanziarie delle famiglie, supponendo che il tasso di risparmio delle famiglie rimanga al 2,2%.
Tokuoka ha concluso che nel medio termine è fondamentale stabilire un piano credibile per garantire la sostenibilità fiscale. Il piano dovrà prevedere un calendario stabilito per le riforme fiscali da attuare una volta che la ripresa economica avrà preso forza.
Tuttavia, un cambiamento nella politica fiscale espansiva adottata dal governo in questi ultimi anni non è imminente. Gli ultimi dati sul Pil di Q4 ’09 hanno indicato che la crescita economica è trainata principalmente dalle esportazioni, nonostante la ripresa sorprendente delle spese dei consumatori e degli investimenti delle imprese. Tuttavia, l'aspetto più preoccupante dei dati sul PIL di Q4 è stato il calo dello 0,9% q/q del deflatore del PIL – il valore più basso degli ultimi 54 anni.
La deflazione pesa sull’economia giapponese in due modi: 1) indebolisce la spesa dei consumatori e 2) rallenta gli investimenti delle imprese, dato che i tassi reali sono più alti che nel resto del mondo sviluppato.
Questa situazione negativa non è destinata a cambiare nel breve termine. Infatti, l'output gap è molto ampio (circa il 7% secondo le stime del Cabinet Office per il periodo luglio-settembre 2009) e un recupero significativo non è previsto nei prossimi mesi. In effetti, la domanda interna è destinata a rimanere debole a causa del calo dei salari, che sta avendo un impatto sulle vendite di una vasta gamma di beni discrezionali, e delle incertezze sulla ripresa economica in corso che limitano gli investimenti. Per queste ragioni solo un ulteriore miglioramento significativo delle esportazioni potrebbe innescare una ripresa economica più sostenuta.
La crescita delle esportazioni è, comunque, limitata dal forte apprezzamento dello Yen negli ultimi mesi, in particolare nei confronti del Dollaro statunitense e, di conseguenza, dello Yuan cinese, che è agganciato alla valuta statunitense. Rispetto al picco di giugno 2007, lo Yen è avanzato di oltre il 27% rispetto al dollaro USA, erodendo i margini di profitto per le imprese esportatrici. Basato sulle stime della Parità di potere d'acquisto dell’OCSE, ai livelli attuali, lo Yen è sopravvalutato di oltre il 25% rispetto al dollaro USA.
Pertanto, una svalutazione dello Yen sarebbe il modo più efficace per stimolare la crescita economica giapponese nel breve periodo, anche se sembra difficile da attuare, dato che quasi tutte le principali economie internazionali contano più o meno esplicitamente sulla svalutazione della loro moneta per rilanciare l'economia. Inoltre sia la Banca del Giappone (BoJ) sia il Ministero del Tesoro sembrano avere possibilità limitate di attuare azioni politiche per stimolare l'economia. La settimana scorsa, ad esempio, la BoJ ha lasciato i tassi invariati allo 0,1% e non ha preso decisioni sul suo programma di quantitative easing.
Tuttavia, crediamo che, dovesse lo Yen tornare a rafforzarsi rispetto al dollaro USA nei prossimi mesi, la BoJ sarebbe pronta ad adottare misure straordinarie (ad esempio aumentando i prestiti alle banche commerciali o gli acquisti dei titoli di Stato) per indebolire il tasso di cambio. Il deterioramento dei conti pubblici è un altro fattore che dovrebbe favorire un calo dello Yen. Non crediamo, quindi, che nei prossimi mesi lo Yen possa rafforzarsi in maniera consistente dal livello attuale.
Per questo motivo non vediamo ragioni per investire in qualsiasi asset class denominata in Yen giapponesi. Il mercato azionario giapponese ha sottoperformato gli altri principali mercati azionari internazionali, mentre, considerando la possibile svalutazione dello Yen nel medio termine e i bassi rendimenti obbligazionari, consigliamo vivamente di non investire nel mercato obbligazionario giapponese.
Infine, lo scenario economico per l'economia giapponese che abbiamo appena descritto rafforza la nostra raccomandazione di acquisto sul tasso di cambio AUD/JPY. Il tasso di cambio è sceso nelle settimane precedenti a causa della decisione a sorpresa della RBA di lasciare i tassi invariati al 3,75% al termine della riunione di politica monetaria di febbraio e per l'aumento del premio al rischio sui mercati finanziari internazionali. Tuttavia, l'AUD/JPY è rimbalzato la settimana scorsa quando la RBA ha chiarito nelle minute della riunione di febbraio che la fase di rialzo dei tassi riprenderà nei prossimi mesi. A seguito dell’andamento migliore del previsto dell'occupazione nel mese di dicembre la RBA potrebbe decidere di alzare i tassi al 4% già nel corso della riunione di marzo. Continuiamo a ritenere che la banca centrale australiana e quella giapponese attueranno rispettivamente la politica monetaria più restrittiva e più espansiva tra le principali banche centrali nel 2010, rendendo il tasso di cambio AUD/JPY il preferito per svolgere operazioni di carry trade.

Il momentum dice ancora borse

Global Strategy Weekly del 15 febbraio (per una prova del report settimanale Top Down Outlook vai sul sito www.matrada.it)

A seguito delle forti vendite delle ultime due settimane, i principali mercati azionari internazionali registrano performance negative da inizio anno: lo S&P500 perde circa il 3,5%, il DJ Eurostoxx l’8,2%, il Nikkei il 4,3% e il FTSE100 il 5%. Anche i mercati emergenti nel loro complesso, con l’eccezione di alcuni indici minori, sono in perdita nel 2010: l’MSCI Asia perde il 5,9%, l’MSCI mercati emergenti dell’Est Europa del 3,8% e l’MSCI Latin America Latina del 3,7%.
Dopo questi ribassi le previsioni dei maggiori strategist ed economisti internazionali sul futuro dei mercati azionari sono molto diverse tra loro, soprattutto per quanto riguarda l'S&P500, che rimane il principale benchmark di riferimento a livello internazionale. Barton Biggs, chief global strategist di Morgan Stanley nel periodo 2003-2007 e ora a capo dell’hedge fund Traxis Partners, ha recentemente dichiarato che “le valutazioni sono ok e ci sono un certo numero di buone opportunità sul mercato”. Biggs ha detto lo scorso settembre che l'indice S & P500 può salire sino a 1350 nel 2010. Tuttavia, secondo il professore della New York University Nouriel Roubini, “il mercato azionario americano sarà praticamente invariato a fine anno”. Più pessimista è la previsione di Jeremy Grantham, chief investment strategist di Grantham Mayo Van Otterloo & Co, che ha suggerito agli investitori di sottopeseare i mercati azionari perché lo S&P500 è sopra quello che lui crede essere il suo fair value a 850.
Come avevamo indicato nel “Global Strategy Weekly” dello scorso 11 gennaio (“Un inizio d’anno positivo”), le prospettive per lo S&P500, pur essendo positive nel breve periodo, erano meno rosee in un’ottica di medio periodo. Infatti, il rapporto P/utili medi degli ultimi dieci anni dello S&P500 si era portato a 20.44x, valore superiore alla media degli ultimi 30 anni di 18.13x. Tale valore implicava che il rendimento composito atteso per i 10 anni successivi fosse del 5% sulla base di un modello di valutazione che prende in considerazione l’utile medio degli ultimi 10 anni, la crescita media annua degli utili negli ultimi 30 anni ed il P/E medio degli ultimi 30 a fronte del quasi 11% di rendimento atteso che lo stesso modello indicava nello scorso mese di marzo e del 7% del rendimento storico. Investire sullo S&P500, quindi, appariva ancora conveniente in quel momento, ma solo se il rendimento atteso fosse stato confrontato con il 3.8% offerto dal T-bond a 10 anni. Tale modello di valutazione, dopo il calo delle ultime settimane, evidenzia ora come gli investitori si possano aspettare un rendimento composto del 6% nei prossimi 10 anni, sotto il rendimento reale medio del 7% realizzato storicamente, ma superiore alla media del 5,4% previsto dal modello in passato.
Nonostante ciò, abbiamo sempre mantenuto una raccomandazione di BUY su alcuni mercati azionari, in particolare tra quelli dei mercati emergenti (per le ragioni leggi il “Global Strategy Weekly – Outlook sui mercati emergenti” del 1° febbraio). Tra i mercati azionari dei paesi sviluppati la nostra unica raccomandazione di BUY è sul Nasdaq 100. Nel nostro report del 1° febbraio abbiamo analizzato le ragioni fondamentali alla base del nostro rating su questi mercati.
Tuttavia, quello che andremo a fare ora sarà analizzare le prospettive dei maggiori mercati finanziari internazionali con un approccio diverso. Infatti, invece di analizzare i fondamentali economici che potrebbero determinare i movimenti nei prossimi mesi, prenderemo in considerazione quali indicazioni forniscono le principali strategie di momentum. Nel corso degli ultimi anni una vasta letteratura accademica ha, infatti, evidenziato come l’utilizzo di strategie comunemente denominate di “momentum” siano state in grado di generare extra-rendimenti significativi. Pietra basilare in tal senso è stato lo studio di Jegadeesh e Titman “Returns to buying winners and selling losers: implications for stock market efficiency” pubblicato sul I° numero del Journal of finance del 1993. In questo studio i due autori hanno verificato come la strategia di comprare i titoli che nel corso dell’ultimo periodo (da 3 a 12 mesi precedenti) avessero realizzato le migliori performance abbia realizzato rendimenti anormali positivi nel corso del periodo 1965/1989 sul mercato americano. In particolare la strategia basata sull’acquisto dei titoli che avevano realizzato la migliore performance negli ultimi 6 mesi e sul mantenerli in portafoglio nei sei mesi successivi aveva permesso di realizzare un rendimento medio mensile dell’1,7%. Importante è la verifica da parte dei due autori che tali rendimenti non erano dovuti alla presenza di rischi sistemici o ad una ritardata reazione a fattori comuni.
Tale studio è stato seguito nel corso degli anni successivi da diversi report riferiti ai vari mercati, che hanno evidenziato risultati simili. Tralasciando quali potrebbero essere le cause di queste performance andremo ora ad analizzare cosa ci indica una semplice strategia di momentum con riferimento alle principali asset class internazionali. Nel Global strategy weekly di questa settimana, abbiamo preso come indici di riferimento alcuni fondi comuni di Eurizon, non con lo scopo di dare un giudizio sulla loro bontà, ma per valutare il rendimento effettivamente realizzabile da un investitore italiano in un periodo temporale più lungo di quello dall’entrata sul mercato degli ETF quotati a Piazza Affari. Abbiamo preso in considerazione 10 fondi comuni che investono in diverse asset class: con riferimento al mercato azionario in Asia, Europa, Giappone, Italia, Nord America, Nasdaq100, e per quel che riguarda il mercato obbligazionario Euro medio/lungo termine, tesoreria Euro, Tesoreria Dollaro e obbligazioni mercati emergenti. La strategia adottata è stata quella di comprare a fine mese i 3 fondi con la migliore performance annua e tenerli in portafoglio sino alla fine del mese successivo per poi effettuare una nuova selezione. Come si può vedere dal grafico in pagina tale strategia avrebbe permesso di mettere a segno una performance prossima al 60% dal 1999, contro il 6% che si sarebbe realizzato dividendo l’investimento iniziale in parti uguali in ognuno dei fondi di riferimento.
Tuttavia, sempre il grafico in pagina evidenzia come l’utilizzo di un indicatore che prende in considerazione non solo la performance a 1 anno, ma anche quella a 1 mese, 3 mesi, 6 mesi e 9 mesi, che è alla base delle strategia trend follower che adottiamo come supporto nella scelta delle asset class da inserire nel Top Down Portfolio, ha fornito risultati ancora migliori: +129% nel corso del periodo di riferimento. La ragione della migliore performance dell’indicatore di momentum da noi utilizzato (per i risultati che si possono ottenere sul mercato azionario si guardi lo studio “Gestione dinamica di portafoglio con strategie di momentum” pubblicato sul nostro sito) è la sua maggiore reattività di fronte a cambiamenti del trend.
Prendendo ora come riferimento i principali ETF quotati a piazza Affari andremo a vedere quali sono le asset class da favorire sulla base della strategia evidenziata in precedenza. Considerando le 30 principali asset class identificabili tra gli ETF italiani (mercati azionari, obbligazionari e commodities) i sei mercati finanziari da sovrappesare sarebbero l’azionario dell’Europa dell’Est, dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa, la Cina e Nasdaq 100.
La scelta di tali asset sembra andare contro il trend delle ultime settimane, che ha visto i principali mercati azionari correggere. Tuttavia, questo non dovrebbe stupire considerando la caratteristica delle strategie di momentum di dare indicazioni di entrata ed uscita dei mercati in ritardo rispetto all’inversione del trend. Al contrario, proprio il ribasso delle ultime settimane potrebbe permettere a chi non era entrato sui mercati azionari nel corso degli ultimi mesi di farlo con un profilo rischio/rendimento migliore di quello di inizio anno. Infatti, dopo il ribasso la maggior parte dei mercati azionari si è portata a ridosso di quello che è considerato uno spartiacque tra trend al rialzo e al ribasso: la media mobile a 10 mesi. Nella tabella successiva abbiamo evidenziato i risultati sui principali indici azionari internazionali di una strategia basata sull’acquisto dell’indice nel caso la chiusura sia superiore alle media mobile a 10 mesi e sulla vendita nel caso la chiusura sia inferiore. Come si può notare la performance è sostanzialmente positiva, anche senza considerare i rendimenti che si sarebbero ottenuti investendo in titoli obbligazionari nei periodi in cui il modello diceva di uscire dai mercati azionari.
Abbiamo anche evidenziato la distanza delle quotazioni attuali dalla media mobile a 10 mesi. Una combinazione delle due strategie utilizzate potrebbe essere quella di comprare i mercati azionari sopra indicati con degli stop loss alla rottura al ribasso delle rispettive medie mobili a 10 mesi.
Per il momento, però, le nostre raccomandazioni di BUY sui mercati emergenti indicata prima e sul Nasdaq 100 rimangono immutate.

Prospettive dei bond in Usa ed area Euro

Global Strategy Weekly del 8 febbraio (per una prova del report settimanale Top Down Outlook vai sul sito www.matrada.it)

Fin dalla sua istituzione, non abbiamo inserito alcuna asset class obbligazionaria nel nostro Top Down Portfolio.
Questo è semplicemente perché il "Top Down Portfolio" è stato progettato per replicare la possibile asset allocation di un hedge fund diversificato a livelo macro ed è quindi adatto per la parte più aggressiva del portafoglio di un investitore attivo. Considerando la nostra preferenza per le strategie di momentum, abbiamo sempre visto i mercati azionari (soprattutto quelli dei mercati emergenti) e alcuni tassi di cambio (as esempio l’AUD/JPY, l’EUR/USD ed il NOK/SEK) offrire un profilo rischio/rendimento maggiore rispetto al mercato obbligazionario, e l'oro e l’argento offrire una maggiore protezione contro i rischi di un potenziale aumento del premio al rischio sui mercati finanziari internazionali.
Tuttavia, siamo ben consapevoli del fatto che le obbligazioni sono solitamente l’asset class principale nei portafogli degli investitori, nonostante il brusco calo dei rendimenti nel corso degli ultimi anni. Infatti, secondo gli ultimi dati raccolti da Michael Belkin, autore di "The Belkin Report", solo USD24bn sono stati investiti in tutti i vari tipi di fondi azionari durante il rally partito dallo scorso marzo '09, contro gli USD178bn investiti in fondi obbligazionari.
Di conseguenza, nel "Global Strategy Weekly" di questa settimana analizzeremo le prospettive del mercato obbligazionario sia negli Stati Uniti sia nell’area Euro, anche se non andremo a modificare le asset class nel nostro "Top Down Portfolio".
Nella "Global Strategy Weekly" pubblicato lo scorso 18 gennaio dal titolo "Cosa ci sta dicendo la curva dei rendimenti?", abbiamo sottolineato che una curva dei rendimenti molto ripida (il differenziale tra T-Bill a 3m e T-bond a 10 anni in Usa è ben al di sopra di 300bp) è solitamente seguita da un calo dei tassi a lungo termine e un aumento dei tassi a breve termine. Siamo quindi del parere che un appiattimento della curva dei rendimenti sia negli Stati Uniti sia in area Euro (si considera il mercato obbligazionario tedesco come parametro di riferimento) sia lo scenario più probabile nel medio termine.
Con i titoli di Stato vicini a minimi storici sia negli Stati Uniti sia in area Euro vediamo ben pochi motivi per investire in questi titoli ora. Infatti, investire nei titoli Governativi a breve termine avrebbe senso solo in caso di nuove turbolenze sui mercati finanziari o se dovessero riprendere le pressioni deflazionistiche.
Più incertezze circondano le prospettive delle obbligazioni governative di lungo termine. Da un lato, siamo scettici sulle prospettive di un calo dei rendimenti a lungo termine nei prossimi mesi, come la pendenza della curva dei rendimenti sembrerebbe indicare. Infatti, nonostante i rialzi registrati dai minimi registrati a dicembre 2008 (al 2,42% negli Stati Uniti e al 2,95% in Germania), i rendimenti a lungo termine rimangono su valori bassi, soprattutto se si considera la ripresa economica globale. D'altra parte, non concordiamo con la convinzione generale che i rendimenti possano salire di molto nei prossimi trimestri (in consensus degli economisti raccolto dalla Federal Reserve Bank di Filadelfia lo scorso mese di dicembre nel sondaggio Livingston ha previsto che i tassi negli Stati Uniti possano risalire al 4,1% alla fine del 2010, e al 4,64% entro la fine del 2011).
Riteniamo infatti che la crescita economica negli Stati Uniti e nell’area Euro nei prossimi anni possa essere molto contenuta, dal momento che il tasso potenziale di crescita è diminuito per la crisi degli ultimi due anni. Inoltre, il processo di deleveraging, che avrà luogo nei principali paesi sviluppati (il debito totale come percentuale del PIL è al 296% negli Stati Uniti e al 285% in Germania) dovrebbe pesare negativamente sulla crescita economica.
Altri due fattori dovrebbero giocare un ruolo positivo nella riduzione dei rendimenti a lungo termine nei prossimi trimestri. Le obbligazioni statunitensi a lungo termine dovrebbero continuare a beneficiare degli acquisti d parte di investitori esteri. Nello studio "International Capital Flow and U.S. Interest rates", gli economisti della Federal Reserve Francis Warnock e Veronica Warnock hanno dimostrato che i flussi di capitali stranieri hanno un impatto significativo sui tassi di interesse a lungo termine. Anche se un rallentamento degli acquisti esteri è possibile, l’eventualità che gli investitori internazionali possano abbandonare completamente il mercato statunitense nei prossimi mesi sembra remota. Per questo motivo, gli acquisti di obbligazioni statunitensi da parte di investitori esteri dovrebbero continuare ad avere un effetto positivo sull'economia americana.
Nell’area Euro, invece, i timori che circondano le prospettive dei paesi periferici possono avere un effetto positivo sui titoli tedeschi, che dovrebbero continuare ad essere visti come un porto sicuro.
Il nostro scenario principale è che i rendimenti dei Governativi a lungo termine sia negli Stati Uniti sia nell’area Euro possano aumentare nel breve termine (in particolare negli Stati Uniti), in linea con la ripresa economica nei primi mesi del 2010, per poi diminuire quando le rispettive Banche Centrali inizieranno ad alzare i tassi in H2 '10, con gli investitori che inizieranno a scontare una crescita economica più moderata e pressioni inflazionistiche più contenute. Anche se non raccomandiamo di investire in titoli di Stato a lungo termine ora, riteniamo ch questi abbiamo il potenziale per garantire rendimenti positivi nei prossimi mesi. La scelta migliore per gli investitori obbligazionari è avere la duration di portafoglio più lunga possibile.
Un improvviso aumento dell'inflazione è il principale rischio per la nostra stima precedente. Nel report "Inflation hedging for long-term investors", pubblicato nel mese di aprile 2009, gli economisti del Fmi Shaun Alexander e Attie Roache hanno verificato che "le obbligazioni governative a lungo termine sono l’asset class peggiore nel periodo immediatamente successivo ad uno shock di inflazione". Tuttavia, i due economisti hanno anche osservato che "dopo circa 3 anni le dinamiche economiche iniziano a lavorare in favore dei Governativi a lungo termine, anche se gradualmente."
Tuttavia, riteniamo che le prospettive di un forte incremento dell’inflazione siano molto limitate a causa del basso utilizzo della capacità produttiva e degli effetti del processo di deleveraging sulle spese dei consumatori, che abbiamo sottolineato in precedenza. Siamo quindi sostanzialmente d'accordo con il consenso degli economisti del sondaggio Livingston, che vede i prezzi al consumo in aumento del 2,2% nel 2010, e dell’1,8% nel 2011. Il tasso di inflazione per i prossimi 10 anni implicito nei TIPS è al 2,27%
Dovesse l’inflazione salire su valori superiori a quelli stimati, gli investitori obbligazionari dovrebbero passare alla obbligazioni legate all’inflazione.

Outlook sui mercati emergenti

Global strategy weekly del 1 febbraio (per una prova del report settimanale Top Down Outlook vai sul sito www.matrada.it)

I mercati azionari dei paesi emergenti hanno realizzato performance molto positive dall’inizio del trend al rialzo dei maggiori indici internazionali a marzo '09: l'MSCI East Euro è avanzato dell’81%, l'MSCI Emerging Asia, del 102% e l'MSCI America Latina del 67%. Non sorprende, quindi, che questi indici siano stati anche i più colpiti dalle vendite nelle ultime due settimane. Rispetto ai massimi registrati nei primi giorni del 2010, il MSCI East Euro è sceso del 6,2%, l'MSCI Emerging Asia del 7,5% e il MSCI Latin America del 6,3%.
Le performance negative delle ultime due settimane hanno pesato negativamente sul nostro “Top Down Portfolio”, che è ampiamente esposto su tutti i mercati azionari dei paesi emergenti dall'inizio della sua costituzione. Tuttavia, anche dopo la correzione delle ultime due settimane, non cambieremo la nostra raccomandazione di acquisto su questi mercati. Infatti, la maggior parte degli elementi che hanno favorito il rally dei mercati emergenti sono ancora ben presenti.
Il fattore più importante a sostenere i mercati azionari emergenti sono le aspettative che la crescita economica dovrebbe essere robusta sia nel 2010 sia nel 2011. Per fare un esempio, nell’aggiornamento delle stime del World Economic Outlook pubblicato la settimana scorsa, il FMI ha alzato le sue proiezioni per la crescita del PIL nei paesi emergenti economie rispetto a quelle del 2009 dal 5,1% al 6% nel 2010 e dal 6,1% al 6,3% 2011. La maggiore revisione al rialzo ha interessato l'Asia, che dovrebbe crescere dell’8,4% sia nel 2010 (contro il 7,3% previsto a novembre) sia nel 2011 (8,1%). La Cina dovrebbe continuare ad espandersi ad un ritmo robusto, con una crescita del PIL del 10% previsto nel 2010.
Tuttavia, le notizie provenienti dalla Cina sono la ragione principale dietro la sottoperformance dei mercati azionari asiatici ex - Giappone nel corso delle ultime settimane. Infatti, dopo la crescita superiore alle attese del PIL del 4° trimestre del 2009 (+10,7% y/y), le autorità cinesi hanno messo in atto le prime misure restrittive per contenere la crescita del credito e contenere le pressioni inflazionistiche (1,9% y/y nel mese di dicembre). Infatti, la Banca popolare Cinese ha alzato il rapporto per le riserve necessarie, in anticipo rispetto a quanto previsto dal mercato. La PBOC anche ha anche incrementato i rendimenti dei titoli di stato a 3 mesi, 6 mesi e 1 anno Bill nelle ultime settimane. Tuttavia, le voci secondo cui alle grandi banche sarebbe stato imposto di non concedere nuovi crediti sono state negate.
Tuttavia, anche se i mercati hanno reagito in maniera negativa ai segnali di una politica monetaria più restrittiva in Cina, con un ribasso delle borse dei prezzi delle materie prime poiché si teme che questa possa provocare una minore crescita economica, riteniamo che questa decisione sia la conseguenza della forte crescita economica e della volontà delle autorità cinesi di contenere la crescita eccessiva del credito, per prevenire problemi maggiori nei prossimi mesi. Infatti, il forte aumento del debito nel corso del 2009 (i nuovi prestiti sono stati pari a 9,21 mila miliardi di Yuan nel 2009 e dovrebbero scendere a 7,5 mila miliardi di Yuan nel 2010 secondo le stime di Morgan Stanley), è una grande fonte di preoccupazione per la stabilità finanziaria della Cina nei mesi a venire. Per queste ragioni vediamo le decisioni della PBOC come positive in un’ottica di medio termine. I mercati emergenti dovrebbero anche continuare a beneficiare dell’eccesso di liquidità creata dalle maggiori banche centrali internazionali. Infatti, nonostante il miglioramento dell'attività economica, la politica monetaria rimarrà espansiva nelle principali economie internazionali ancora a lungo. Questo è particolarmente vero negli Stati Uniti, in Area Euro, in UK ed in Giappone. Come abbiamo sottolineato nelle precedenti edizioni del "Global Strategy Weekly", riteniamo che la Fed, la BCE e la BoE inizieranno ad aumentare i tassi in H2, mentre la BoJ dovrebbe lasciarli invariati per tutto il 2010 (e probabilmente anche nel 2011). Ciò significa che i tassi dovrebbero restare sotto i livelli neutrali per tutto il 2010. Al contrario, gli analisti di Morgan Stanley hanno sottolineato in una recente ricerca che le banche centrali dei paesi emergenti potrebbero alzare i tassi prima del previsto a causa della forte crescita economica. L'inasprimento della politica monetaria nei mercati emergenti dovrebbe aumentare il flusso di capitali in entrata, aumentando le possibilità di una sovra performance sia delle economie sia delle attività dei mercati emergenti.
Infine, i più importanti mercati emergenti possono fruire di un livello d’indebitamento totale inferiore rispetto alla maggior parte dei paesi sviluppati. Una recente ricerca di McKinsey ha evidenziato come il rapporto debito totale/PIL sia molto più basso nei paesi in via di sviluppo che nei paesi sviluppati. Il processo di deleveraging, che avrà luogo nei paesi sviluppati nei prossimi anni peserà sulla crescita economica di questi paesi per molti anni, rendendo le prospettive dei Paesi emergenti decisamente migliori.
Inoltre, nonostante il forte trend al rialzo degli ultimi mesi, i mercati emergenti non sembrano eccessivamente sopravvalutati ai livelli attuali. Infatti, il rapporto P/utili stimati per i prossimi è inferiore alla media storica, sia in Asia (13.2x rispetto a 14x) sia nei paesi emergenti dell’Europa (8.9x rispetto 10.4x) ed è superiore alla media storica solo in America latina (13.6x versus 10.6x).
Conferiamo la nostra raccomandazione di buy sui mercati azionari dei paesi emergenti anche alla luce della considerazione che il trend di fondo di questi indici rimane al rialzo. Infatti, nonostante la recente correzione, tutti gli indici di riferimento sono ancora ben sopra le rispettive medie mobili a 200 giorni e il nostro indicatore di momentum preferito (che ha come base di riferimento il rendimento a 1 mese, 3 mesi, 6 mesi, 9 mesi e 12 mesi), che ha dato un segnale di acquisto alla fine del mese di aprile '09, è ancora positivo. Solo qualora questi indicatori diventassero negativi riconsidereremmo la nostra posizione sui mercati emergenti.