lunedì 30 maggio 2011

Quanto corre la locomotive tedesca

Nel corso dell’ultima settimana i mercati si sono ancora una volta concentrati sulle notizie negative provenienti dai paesi periferici dell’area Euro, in particolare sulle possibilita’ sempre piu’ elevate che la Grecia possa andare incontro ad un default che la potrebbe addirittura spingere a lasciare l’Euro per tornare alla Dracma. Gli investitori hanno, invece, guardato con minore attenzione alle notizie positive provenienti dalla maggiore economia della regione: la Germania. In particolare e’ stato l’andamento migliore delle attese dell’indice di fiducia delle imprese tedesche IFO a confortare sulle prospettive di crescita del paese nel corso dei prossimi mesi. L’indice, infatti, e’ rimasto invariato a 114,2, contro attese di consensus per un ribasso a 113,7, valore che rimane prossimo al massimo storico di 115,4 registrato lo scorso mese di febbraio. Le aziende tedesche hanno dimostrato di risentire in maniera contenuta del balzo dell’Euro nei confronti del Dollaro, delle incertezze sulla crescita economica globale, e delle possibilita che la BCE possa ulteriormente alzare i tassi nel corso dei prossimi mesi dopo il primo incremento di 25 punti base deciso in Aprile. L’indicazione piu’ positiva e’ arrivata dal forte miglioramento dell’indice retail, salito al massimo dallo scorso mese di dicembre, segnale di come le spese personali potrebbero ulteriormente migliorare nei prossimi mesi. Un’accelerazione dei consumi nei prossimi trimestri dopo che nei primi tre mesi di quest’anno erano saliti di un modesto 0,4% appare, quindi, una chiara possibilita’. A favorire il miglioramento dei consumi dovrebbe essere il positivo quadro occupazionale. Nel corso dei primi mesi del 2011 il mercato del lavoto tedesco e’ gia stato in grado di creare 165k posti di lavoro, con il totale dalla fine della recessione che sale a 521k, mentre il tasso di disoccupazione e’ sceso al 7,1%, minimo storico. I dati sul mercato del lavoro che saranno pubblicati la prossima settimana dovrebbero confermare come il trend dovrebbe proseguire nel breve periodo grazie alla forza dell’economia tedesca, con il tasso di disoccupazione che potrebbe scendere al 7%. Oltre a sostenere i consumi aumentando il reddito disponibile delle famiglie, il miglioramento del mercato del lavoro potrebbe favorire i consumi grazie ad un maggiore senso di sicurezza che potrebbe spingere ad una riduzione del tasso di risparmio. Complice le incertezze sul futuro per l’introduzione a partire da inizio secolo per aumentare la produttivita’, infatti, le famiglie tedesche avevano aumentato il gia’ tradizionalmente alto tasso di risparmio portandolo sino all11,7%. Una sua riduzione potrebbe ora spingere la domanda interna, in particolare nel settore immobiliare, che non aveva registrato un boom a meta’ degli anni 2000 come avvenuto in molti altri paesi dell’area Euro, e dei beni di consumo durevoli.
L’economia tedesca, quindi, sembra candidata per entrare in un periodo di forte crescita economica dovuto non solo a fattori ciclici ma soprattutto strutturali. In primo luogo, grazie alle riforme attuate ad inizo secolo, la germania vanta una posizizione competitiva nettamente superiore a quella dei principali partner europei. Tale maggiore competitivita’ si sta riflettendo anche delle decisioni di investimento da parte degli investitori esteri. Un recente studio di Ernst and Young ha evidenziato come la Germania potrebbe conquistare il primato degli investimenti esteri in Europa superando il Regno Unito grazie alla sua maggiore connessione con le economie emergenti, Cina in testa.
In secondo luogo, il bilancio pubblico tedesco appare in una situazione decisamente migliore di quella degli altri maggiori paesi dell’area Euro. Le ultime stime della Commissione Europea, ad esempio, vedono il rapporto deficit/GDP scendere dal 3.3% del 2010 al 2% nel 2011 e all’1,2% nel 2012, mentre il debito pubblico dovrebbe scendere dall’83,2% del 2010 all’81.1% nel 2012. Inoltre la Germania dovrebbe ottenere gia’ a partire dall’anno in corso un surplus primario, con le entrate che dovrebbero superare le uscite al netto del pagamento dei tassi di interesse.
Anche il fattore demografico potrebbe sostenere l’economia tedesca nel medio periodo. Gli ultimi dati dell’ufficio statistico nazionale hanno evidenziato un forte incremento dell’immigrazione grazie alle buone prospettive occupazionali. Questo e’ fondamentale per sostenere la domanda interna e compensare l’invecchiamento della popolazione.
A questi fattori strutturali si vanno ad aggiungere anche fattori ciclici. Il primo tra questi e’ il basso livello dei tassi di interesse. In termini reali, ad esempio, il decennale tedesco si trova ai minimi storici, favorendo gli investimenti. Il secondo e’ che l’Euro, nonostante sia molto forte nei confronti del Dollaro, si e’ indebolito contro lo Yen, favorendo le compagnie automobilistiche che trovano in quelle giapponesi le proprie piu’ agguerrite concorrenti.
Con le prospettive dell’economia tedesca favorevoli, per gli altri paesi dell’area Euro diventa fondamentale riuscire ad agganciarsi alla ripresa teutonica. Sfortunatamente, nessuno dei paesi periferici coinvolti nella crisi del debito dovrebbe beneficiare di tale ripresa, considerando che le quote delle loro esportazioni verso la germania sono molto basse. Diverso e’ il discorso per gli altri due paesi maggiori dell’area Euro, Francia ed Italia. Dalla Francia arrivano, infatti, l’8,2% delle importazioni tedesche e dall’Italia il 5,9%. La Germania potrebbe, quindi, costituire un’ancora di salvezza per i paesi core dell’area Euro.

martedì 24 maggio 2011

Ma l’Italia non è la Grecia

I mercati azionari europei hanno vissuto ieri una seduta fortemente condizionata dalle nuove tensioni sul fronte del debito pubblico europeo. Oltre alle solite incertezze sulle prospettive della Grecia, con i mercati che hanno spinto i rendimenti del paese ai nuovi massimi storici per le ipotesi sempre più probabili di un default più o meno soft del paese, a pesare sono state anche le notizie negative provenienti nel fine settimana su Italia e Spagna.
L’agenzia di rating Standard and Poor’s ha comunicato venerdì a mercati chiusi di avere tagliato l’outlook sul debito pubblico italiano portandolo da “stabile” a “negativo” per la diminuzione delle prospettive di crescita per la mancanza di determinazione nell’introdurre quelle riforme necessarie per incrementare la produttività. I timori dell’agenzia di rating sono anche che una crisi politica possa contribuire a un peggioramento dei conti pubblici.
In Spagna è stato il crollo della partito socialista del premier Zapatero nelle elezioni amministrative tenutesi domenica a fare temere sulla prosecuzione del processo di risanamento dei conti pubblici.
Oltre ai mercati azionari, anche quelli obbligazionari hanno risentito delle novità emerse nel fine settimana, spingendo al rialzo i rendimenti dei titoli governativi sia in Italia sia in Spagna anche se poi nel pomeriggio il rialzo è stato quasi completamente annullato una volta svanito l’effetto sorpresa. Il rendimento del decennale italiano è salito di 3 punti base mentre quello spagnolo di 5 punti base.
Tuttavia un’analisi di più lungo periodo dell’andamento dei rendimenti evidenzia come i mercati obbligazionari non siano particolarmente preoccupati al momento attuale dalla situazione del debito pubblico italiano. Da inizio anno, infatti, il rendimento del decennale italiano è praticamente invariato, sostanzialmente in linea con l’evoluzione dell’omologo tedesco. Il balzo più consistente del titolo a 2 anni (+20 punti base) è da imputare alla revisione delle aspettative sul futuro della politica monetaria della BCE, che è attesa alzare nuovamente i tassi di interesse nei mesi a venire dopo il primo rialzo di 25 punti base deciso in aprile, ed è inferiore rispetto al balzo di quello tedesco (+80 punti base).
Questo è tanto più importante considerando quanto un coinvolgimento dell’Italia nella crisi del debito dei paesi periferici possa essere devastante per il futuro dell’intera area Euro. I mercati non hanno, quindi, assegnato un grosso peso alla decisione di Standard and Poor’s. La situazione dei conti pubblici italiani, del resto, per quanto non da sottovalutare, risulta decisamente migliore a quella di tutti i paesi sinora coinvolti nella crisi del debito facendo sì che l’Italia dovrebbe essere in grado di superare questi momenti difficili senza grossi danni. In primo luogo perché il deterioramento dei conti pubblici nel periodo della crisi è stato inferiore a quello di molti partner europei. Ad esempio il rapporto deficit/PIL si è attestato nel 2010 al 4.6% contro il 7% della Francia ed il 6% della media dell’area Euro mentre la sola Germania ha fatto meglio portandosi al 3.3%. Tra i paesi periferici Portogallo e Spagna si sono attestate al 9% e l’Irlanda oltre il 32% per gli effetti del salvataggio delle banche.
In secondo luogo perché il processo di riordino dei conti pubblici dovrebbe proseguire in maniera più spedita che in molti altri paesi. Ad esempio, sulla base delle stime del Ministero del Tesoro Italiano il rapporto deficit/Pil dovrebbe scendere al 3.9% nell’anno in corso e al 2.7%, rientrando quindi all’interno dei parametri Maastricht, nel 2012. Ma la notizia più positiva è che già a partire dal 2011 l’Italia dovrebbe essere in grado di riportare un avanzo primario (cioè le entrate dovrebbero superare le spese al netto delle spese per interessi), situazione fondamentale per arginare la crescita del debito pubblico.
Anche la commissione europea, pur essendo meno ottimista del Governo Italiano sull’andamento dei conti pubblici nel proprio rapporto semestrale appena pubblicato, ha certificato come il miglioramento dei conti pubblici italiani potrebbero proseguire ad un passo più spedito che in molti altri paesi europei. Se quindi la commissione europea prevede che l’Italia possa mancare l’obiettivo di riportare il deficit sotto il 3% del Pil nel 2012 fermandosi al 3.2%, nella media dell’Unione europea questo dovrebbe assestarsi al 3.5% grazie al forte miglioramento della Germania (all’1.2%) con la Spagna al 5.3%, il Portogallo al 4.5%, l’Irlanda all’8.8% e la Grecia al 9.3%. Chiaramente tutti altri numeri rispetto a quelli italiani. La stessa Francia potrebbe essere in una situazione peggiore, fermando la discesa al 5.3%.
I maggiori timori degli investitori riguardano l’evoluzione del debito pubblico, salito al 119% nel 2010 e atteso superare il 120% nell’anno in corso. Però le stime sia della Commissione Europea che del Tesoro prevedono una sua discesa a partire dal 2012.
Tuttavia, per quanto la situazione italiana non sia da paragonare a quella degli altri paesi periferici, il richiamo di Standard & Poor’s dovrebbe stimolare il Governo ad attuare delle riforme per incrementare il potenziale di crescita dell’economia italiana. Ad esempio gli economisti di Societè Generale hanno stimato che questo potrebbe aggirarsi tra lo 0.6% e lo 0.9%, un valore che pone il paese a rischio di recessione ad ogni minimo rallentamento dell’economia internazionale. Inoltre con questo passo di crescita, che permetterebbe al Pil di tornare sui livelli pre-crisi non prima del 2014, risulta molto difficile creare posti di lavoro in maniera sostenuta e stimolare la domanda interna.
Gli ultimi dati sull’andamento del Pil hanno del resto hanno confermato come negli ultimi due trimestri l’economia italiana non sia riuscita ad accodarsi alla ripresa internazionale, con un incremento del Pil dello 0.1% q/q in entrambi i trimestri. In particolare è da monitorare l’evoluzione del settore industriale, dopo che la produzione industriale si è inaspettatamente contratta dello 0.1% nel primo trimestre del 2011. L’indice di fiducia delle imprese che sarà pubblicato giovedì darà indicazioni importanti in tal senso e sarà quindi l’appuntamento macroeconomico più importante della settimana con riferimento all’economia italiana.

Quanto pesa ancora la crisi del mattone USA

A quasi quattro anni dallo scoppio della crisi che ha colpito il settore immobiliare statunitense dopo il forte boom di inizio millennio, lo stato di salute del comparto continua a restare molto preoccupante. I dati pubblicati in settimana, ad esempio, hanno ancora una volta deluso le attese degli economisti, evidenziando come la ripresa dopo un inizio di anno difficile per le cattive condizioni meteorologiche potrebbe essere molto debole se non addirittura inesistente. Le costruzioni di nuove case sono scese in Aprile di oltre il 10%, restando sopra il minimo storico a 478 mila registrato ad aprile 2009 solo del 9%. A preoccupare è stato, soprattutto, l’andamento dell’indice di fiducia dei costruttori NAHB di maggio. Questo è rimasto invariato a 16, valore ben inferiore alla media storica di lungo periodo a 49, contro attese di un rialzo a 17, deludendo ancora una volta le attese di chi si attendeva segnali di un miglioramento nei mesi a venire. Anche i dati in calendario settimana prossima dovrebbero confermare tale scenario: le vendite di case nuove dovrebbero restare poco variate su un valore di poco superiore al minimo che era stato registrato in febbraio, mentre i contratti preliminari di vendita dovrebbero registrare una nuova flessione.
Nonostante la crisi si protragga ormai da quattro anni, i problemi del settore immobiliare sembrano ancora lontani dall’essersi risolti.
In primo luogo il continuo calo dei prezzi delle case continua a tenere lontano i possibili acquirenti. L’indice dei prezzi delle Case/Shiller relativo alle venti maggiori città statunitensi ha registrato in febbraio una contrazione del 3.3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre rispetto al picco registrato a luglio 2006 la flessione è di oltre il 32%. Con il rimbalzo dei prezzi registrato a metà 2010 che si è dimostrato solo temporaneo, i potenziali investitori potrebbero continuare a rimandare gli acquisti per la speranza di ottenere ulteriori ribassi. A spingere al ribasso i prezzi anche nei prossimi mesi potrebbe contribuire l’elevato numero di case pignorate vendute sul mercato a prezzi da saldo da parte delle banche che cercano di recuperare una parte delle perdite. Secondo i dati di RealtyTrac, società che monitora l’andamento dei pignoramenti, le vendite di case pignorate hanno rappresentato il 26% delle vendite totali nell’ultimo mese. Inoltre, la società californiana ha evidenziato come la discesa dei pignoramenti al minimo degli ultimi 40 mesi in Aprile non sia da interpretare come un segnale di miglioramento del mercato, quando il frutto della scelta da parte delle banche di rallentare il processo di rimpossesso delle case a causa delle basse prospettive di riuscire a vendere la proprietà in tempo brevi.
In secondo luogo l’elevata offerta di case sul mercato va a penalizzare non solo i prezzi di vendita ma anche le nuove costruzioni. Secondo gli ultimi dati, all’attuale livello della domanda sarebbero necessari 8,4 mesi per smaltire tutte le case esistenti in vendita e 7,3 mesi con riferimento alle case nuove. Questi dati sono decisamente superiori alla media storica di lungo periodo, pari a circa 5 mesi sia per le case nuove che per quelle esistenti, e riflette sia il boom delle costruzioni nel periodo precedente la crisi sia il drastico calo delle formazioni di nuove famiglie, principale volano per il settore immobiliare, a seguito della recessione e della debolezza del mercato del lavoro negli ultimi anni.
Fino a quando non sarà smaltito l’eccesso di case sul mercato è difficile immaginare che ci possa essere un recupero sostenuto del settore. Proprio per questo il rimbalzo che era stato registrato ad inizio 2010 grazie al credito d’imposta di 8 mila dollari promosso dall’amministrazione Obama si è rivelato temporaneo. Questo, infatti, non è stato sufficiente a rimuovere gli eccessi ancora presenti sul mercato. Tale processo potrebbe, però, rivelarsi ancora lungo sia perché smaltire le scorte di case sul mercato richiederà tempo sia perché il quadro del mercato del lavoro continua a restare incerto, pesando sulla capacità delle famiglie di programmare investimenti consistenti quali l’acquisto di una casa.
Tuttavia l’indice azionario del settore real estate sembra anticipare una ripresa del comparto nei prossimi mesi. L’indice, infatti, vanta un progresso di oltre il 10% da inizio anno, contro il 6% dello S&P500, mentre rispetto ai minimi di febbraio 2009 è salito di oltre il 175%.
A favorire i titoli del settore sono le attese che questi, dopo le ristrutturazioni degli ultimi anni, possano beneficiare di una ripresa della domanda non appena tutti gli elementi negativi saranno eliminati. A favorire la domanda dovrebbe essere il basso livello dei tassi di interesse sui mutui che, unito al calo dei prezzi delle case, ha portato l’housing affordability index, indice che evidenzia quanto l’acquisto di una casa sia affrontabile da una famiglia, al proprio massimo storico.
Ad ogni modo, fino a quando i prezzi delle case non invertiranno la propria tendenza negativa, la crescita delle spese per consumi, e di conseguenza di tutta l’economia statunitense è destinata a restare modesta. Questo non tanto per il peso diretto che il settore immobiliare ha sull’economia (dopo la crisi degli ultimi anni pesa, infatti, per poco più del 2% del Pil) quanto per l’effetto ricchezza che ha sul consumatore statunitense. In uno studio del 2006 gli economisti dell’Università di Yale Case, Quigley e Shiller hanno evidenziato come un aumento del 10% dei prezzi delle case abbia un effetto positivo sui consumi delle famiglie mentre un incremento della stessa entità del mercato azionario ha un effetto limitato. Conclusioni simili sono desumibili anche con riferimento ai principali paesi del mondo sviluppato. Questo appare tanto più verosimile considerando che il valore di mercato delle case delle famiglie statunitensi è, nonostante il calo degli ultimi anni, il doppio rispetto al valore degli investimenti nel mercato azionario. In tale scenario la Fed difficilmente potrebbe decidere delle mosse nel breve, quali un rialzo dei tassi di interesse, che potrebbero danneggiare il mercato immobiliare. Un ulteriore elemento a favore di tassi fermi ancora a lungo.

martedì 17 maggio 2011

Aspettando la fine del QE2 della Fed

Lo S&P500, indice più rappresentativo del mercato azionario statunitense, e il Dax30, indice di riferimento di quello tedesco, hanno continuano a marciare come due rulli compressori nel corso delle ultime settimane nonostante tutte le incertezze legate al balzo dei prezzi del petrolio, alla crisi del debito nei paesi periferici dell’area Euro e agli effetti sulla crescita economica internazionale del terremoto in Giappone e della politica monetaria restrittiva adottata in Cina.
Nel corso della settimana appena conclusa, entrambi gli indici sono rimasti a ridosso dei massimi degli ultimi tre anni e hanno continuato a colmare il gap rispetto ai massimi storici che erano stati registrati prima dello scoppio della crisi del debito nel 2007. Lo S&P500 dovrebbe salire di un altro 16% per segnare un nuovo massimo storico, mentre al Dax basterebbe un ulteriore +8%.
La forza del mercato azionario tedesco è da considerare tanto più positivamente visto il ruolo che ha avuto nel trascinare al rialzo anche gli indici rappresentativi di tutto il mercato dell’area Euro quale ad esempio il DJ Eurostoxx, compensando la debolezza negli ultimi anni dei mercati periferici.
Nel breve periodo lo scenario dei principali mercati azionari occidentali rimane positivo, consigliando di mantenere gli investimenti in questi asset nonostante i profitti registrati negli ultimi mesi e l’inizio del periodo maggio-ottobre solitamente sfavorevole ai mercati azionari possano invogliare a smobilizzare le posizioni. In primo luogo è da evidenziare come i principali indicatori di momentum restino orientati al rialzo, fornendo indicazioni positive in un’ottica trend follower. Tutti i maggiori indici, infatti, continuano a mantenere una performance positiva rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e rimangono ben sopra la media mobile a dieci mesi, segnale di un trend di medio periodo favorevole. Un’indicazione positiva arriva anche da uno dei principali indicatori di ampiezza del mercato statunitense: l’AD line, indicatore costruito calcolando la differenza tra titoli in crescita e titoli in discesa nel corso di una seduta e aggiungendo tale valore a quello del giorno precedente. L’AD line rimane ben sopra la propria media mobile a quaranta settimane, circostanza che è stata storicamente seguita da un trend positivo del mercato azionario statunitense.
Concentrandoci sul mercato statunitense, che rimane il faro a livello internazionale, un ulteriore elemento che dovrebbe sostenerlo nei prossimi mesi è il buon andamento degli utili aziendali. Nonostante gli analisti stiano rivedendo al ribasso le proprie stime, che si erano fatte troppo ottimistiche con un tasso di crescita degli utili atteso del 17% nel 2011 e del 13% nel 2012, questi dovrebbero continuare a crescere ad un buon ritmo nei prossimi mesi. La principale indicazione in tale senso arriva dalla pendenza della curva dei rendimenti, come evidenziato dal grafico in pagina. Un differenziale tra il rendimento dei titoli a dieci anni e quello a due anni superiore ai 250 punti base è stato solitamente accompagnato da una crescita media annua degli utili del 16% nel corso dei tre anni successivi. Per quanto tale tasso di crescita sembra difficile da raggiungere, le premesse per la redditività aziendale restano positive. È, quindi, possibile che gli utili possano continuare a sorprendere positivamente gli analisti nei mesi a venire, in linea con quanto avvenuto nella prima parte del 2011. Secondo i dati di Standard and Poor’s, infatti, ben 280 delle 448 società che hanno presentato i conti hanno battuto le attese degli analisti.
Tuttavia le potenzialità di rialzo sembrano essersi notevolmente ridotte a seguito del forte rialzo degli ultimi mesi, in particolare per il mercato azionario statunitense. Il modello di valutazione di lungo periodo che utilizziamo con riferimento allo S&P500 evidenzia come, alla luce dell’attuale quotazione, delle attese sulla crescita degli utili nei prossimi dieci anni e del P/e medio degli ultimi trenta anni, il rendimento medio che ci possiamo attendere nei prossimi dieci anni è inferiore alla media storica di lungo periodo, pur non essendo ancora stati raggiunti livelli estremi di sopravalutazione. Più pessimista è l’analisi di Jeremy Grantham, fondatore di GMO, società di gestione statunitense. L’esperto evidenzia come il fair value dello S&P500 sia a 920 punti, con un margine di discesa superiore di oltre il 30%.
Il recente rialzo delle richieste di sussidi di disoccupazione è un segnale negativo per lo S&P500, soprattutto qualora questo non dovesse dimostrarsi solo momentaneo. Fasi di rialzo delle richieste di sussidi di disoccupazione sono, infatti, solitamente state seguire da forti cali del mercato azionario, come evidenziato dal grafico in pagina.
Un elemento negativo per tutti i principali mercati azionari internazionali potrebbe essere la politica monetaria restrittiva adottata dalle principali banche centrali internazionali. Bill Heister di Hussman Funds ha recentemente evidenziato come dopo l’inizio della fase di rialzo dei tassi da parte della BCE più del 65% delle maggiori banche centrali internazionali hanno un livello dei tassi di interesse superiore a quello di sei primi. Tale circostanza è stata solitamente accompagnata da una performance negativa delle principali borse mondiali in tutti i periodi di riferimento presi in considerazione (1, 3, 6 e 12 mesi).
La maggiore incognita per i mercati azionari è, però, costituita dalla fine del QE2 della Fed in giugno. Con l’attuale fase positiva iniziata proprio quando la Fed ha annunciato che avrebbe reso la propria politica monetaria ancora più espansiva lo scorso mese di novembre, gli analisti temono che la sua fine possa coincidere con i massimi per gli indici azionari. Se, infatti, molti esperti di mercato stimano che una nuova manovra espansiva possa essere decisa in ottobre, contrariamente al consensus degli economisti che vede un primo rialzo dei tassi nel primo trimestre del prossimo anno, gli effetti sull’economia della fine degli acquisti della Fed sul mercato obbligazionario sono attesi con preoccupazione. I timori sono che ci possa un incremento dei tassi di mercato, con un impatto negativo sul mercato dei crediti, provocando un indebolimento della crescita economica. Ma, soprattutto, a preoccupare è la riduzione della liquidità sul mercato, che penalizzerebbe tutti i mercati finanziari. Le prossime mosse della Fed saranno, quindi, da guardare con particolare attenzione.



martedì 10 maggio 2011

BoE: la vittoria di King

Le conferenze stampa dei presidenti delle banche centrali sono sempre un momento chiave per capire le prospettive di politica monetaria nei loro paesi. Questo è tanto più vero nel Regno Unito, dove la conferenza stampa del Governatore della Bank of England Mervyn King è accompagnata dalla presentazione dell’Inflation report, rapporto trimestrale della banca centrale sulle prospettive dell’inflazione e della crescita economica.
Per questo motivo, le parole di King durante la conferenza stampa in calendario mercoledì 11 saranno da valutare con particolare attenzione per capire le prospettive della politica monetaria in UK nel corso dei prossimi mesi, soprattutto alla luce delle divisioni che erano emerse all’interno del Comitato di politica monetaria nel corso degli ultimi tre mesi, quando tre dei nove membri del comitato avevano votato a favore di un rialzo dei tassi.
Ad inizio anno, inoltre, maggio era considerato il mese in cui la Bank of England avrebbe potuto iniziare a rimuovere la politica monetaria espansiva che era stata decisa nei momenti più acuti della crisi del 2008/2009, anche se tali attese erano venute meno nelle ultime settimane e la decisione presa in settimana dalle autorità monetarie inglesi di mantenere invariati sia i tassi allo 0.5% sia il programma di acquisto di asset a GBP200bn era ampiamente scontata dal mercato.
Nel corso delle ultime settimane, infatti, i fatti sembrano avere dato ragione a King, che nelle sue dichiarazioni era sempre sembrato poco convinto della necessità di alzare i tassi nel breve per contrastare le pressioni inflazionistiche, considerate temporanee.
In marzo, ad esempio, l’inflazione è scesa a sorpresa dal 4.4% y/y al 4% y/y, segnalando che le pressioni inflazionistiche potrebbero essere inferiori a quanto temuto, anche se la crescita dei prezzi rimane il doppio dell’obiettivo della banca centrale del 2%. Anche il quadro economico non sembra tale da giustificare un restringimento della politica monetaria: con una crescita del Pil nel primo trimestre dello 0.5% q/q, l’economia britannica è riuscita solo a recuperare quanto perso nel trimestre precedente, quando aveva registrato una contrazione dello 0.5% q/q a causa delle cattive condizioni meteorologiche.
I dati pubblicati in settimana hanno ulteriormente evidenziato come la ripresa dell’economia britannica nella prima parte dell’anno possa essere seriamente danneggiata sia dal rialzo dei prezzi del petrolio sia dalla politica fiscale restrittiva, con il rialzo dell’IVA dal 17.5% al 20% entrato in vigore ad inizio anno che pesa sui consumi. Il PMI manifatturiero, ad esempio, è sceso da 56.7 a 55 in aprile ed il PMI servizi da 57.1 a 54.3. Questi dati, ha sottolineato Chris Williamson di Markit, sono in linea con una crescita limitata allo 0.4% q/q nel trimestre in corso.
L’inflation report che sarà pubblicato in settimana potrebbe, così, contenere una revisione al ribasso delle stime sulla crescita economica del 2011 e anche nell’anno successivo è difficile prevedere una forte crescita dell’economia. Ad esempio l’istituto nazionale per ricerca economica e sociale ha previsto in settimana che la crescita del Pil potrebbe essere dell’1.4% nel 2011 e del 2% nel 2012.
Sulle nuove proiezioni sull’inflazione, invece, si potrebbero fare sentire gli effetti contrapposti del rialzo dei prezzi del petrolio da una parte e delle minori pressioni inflazionistiche nel breve a causa della debolezza della domanda dall’altra. Le revisioni rispetto alle stime di febbraio, quando l’inflazione era attesa registrare un picco al 4.5% nel terzo trimestre dell’anno per poi scendere sotto il 2% nel terzo trimestre dell’anno successivo, potrebbero così essere modeste.
Il nuovo inflation report e le dichiarazioni del Governatore King nel corso della conferenza stampa dovrebbero rafforzare le attese che un rialzo dei tassi potrebbe non essere deciso prima di dicembre, con possibilità molto forti che nessuna decisione in tal senso possa essere presa prima del nuovo anno. L’uscita di Andrew Sentance dal Comitato di Politica monetaria, inoltre, priverebbe il Comitato del membro più accanito sostenitore delle necessità si alzare i tassi immediatamente, rendendo l’orientamento generale più espansivo. Solo un forte rialzo dell’inflazione nei prossimi mesi, tale da pregiudicare il ritorno dell’inflazione sotto il 2% in un orizzonte di due anni potrebbe cambiare tale scenario di politica monetaria.
I mercati finanziari, del resto, sembrano già essersi adeguati allo scenario di tassi fermi ancora per diversi mesi. Un chiaro esempio in tale senso è rappresentato dalla debolezza della Sterlina, in particolare contro l’Euro. Il tasso di cambio Euro/Sterlina, infatti, si è portato nel corso della settimana sopra la soglia di 0,9 per la prima volta da marzo 2010, prima di registrare una correzione a seguito delle dichiarazioni del presidente della BCE Trichet, che in settimana ha allontanato le possibilità di assistere ad un nuovo rialzo dei tassi già in giugno. Lo scenario di medio periodo resta comunque favorevole all’Euro contro la Sterlina. Il differenziale sui tassi di interesse tra Euro e Sterlina, infatti, dovrebbe diventare sempre più favorevole alla valuta unica europea grazie all’orientamento più restrittivo della BCE, che dovrebbe alzare i tassi ancora nei prossimi mesi a differenza della BoE. Anche i tassi di interesse hanno scontato nelle corse delle ultime sedute una politica monetaria più espansiva di quanto scontato ad inizio anno: ad esempio il rendimento del decennale è sceso dal massimo dell’anno al 3.8% di metà febbraio al 3.38% nel corso della settimana. Gli spazi per ulteriori ribassi sembrano, quindi essere contenuti. Le possibilità di ottenere extra-rendimenti investendo in UK continuano a restare molto basse.

Salvataggio in corner per le commodities

Solo l’andamento migliore del previsto del mercato del lavoro statunitense nel mese di aprile ha permesso alle principali commodities di limitare le perdite nel corso della settimana appena conclusa. La creazione di posti di lavoro superiore alle attese (+244 mila contro attese a +185 mila) ha confortato i mercati sul fatto che le spese dei consumatori statunitensi potrebbero continuare a crescere ad un ritmo moderato nei mesi a venire, sostenendo l’intera economia statunitense e, di conseguenza, la domanda mondiale. Le principali commodities hanno comunque chiuso la settimana con un bilancio negativo: ad esempio l’argento ha perso quasi il 20%, l’oro il 4% e il petrolio il 12%.
Una serie di fattori ha contribuito a rendere incerto lo scenario di breve periodo per le commodities, spingendo gli investitori a vendere per incassare i profitti dopo i forti rialzi degli ultimi mesi.
A livello generale su tutte le commodities hanno pesato le notizie negative provenienti in settimana dal fronte economico statunitense prima della pubblicazione del rapporto sul mercato del lavoro che ha fatto tirare un sospiro di sollievo agli investitori. Il brusco calo dell’ISM servizi in aprile ed il balzo delle richieste di sussidi di disoccupazione, infatti, avevano fatto temere un forte rallentamento dell’economia a stelle a strisce nei mesi a venire.
A pesare è stata anche la forte inversione di tendenza del Dollaro statunitense nei confronti dell’Euro. Molti investitori, infatti, sono soliti acquistare commodities per proteggersi dalla debolezza del biglietto verde e sono, quindi, stati colti di sorpresa dal suo forte rimbalzo. Dopo essere salito ad un massimo di 1.494 mercoledì 4, livello che non era raggiunto da dicembre ’09, il tasso di cambio è sceso a 1.45 sulla scia delle parole del presidente della BCE nel corso della conferenza stampa al termine della riunione di giovedì 5 in cui aveva allontanato le possibilità di un nuovo rialzo dei tassi già in giugno.
Tuttavia non sono mancati neanche fattori negativi legati alle singole commodities. Con riferimento all’argento, il mercato è stato fortemente condizionato dalle decisioni del CME, società che gestisce la borsa dove i futures sull’argento sono scambiati, di alzare per ben tre volte nelle ultime due settimane i margini necessari per fare trading, causando un sell-off da parte degli investitori che avrebbero dovuto rimpinguare quanto dato a garanzie dei futures. L’oro si è accodato alla flessione dell’argento, con il sentiment sul metallo giallo penalizzato dalle indiscrezioni secondo cui l’hedge Fund gestito dal George Soros avrebbe iniziato a liquidare le proprie posizioni sul metallo giallo perché ritiene che i rischi di deflazione, motivo per cui tale investimento era stato deciso, siano notevolmente diminuiti.
Il prezzo del petrolio, infine, ha accelerato al ribasso dopo che l’Agenzia internazionale per l’energia ha rilevato come il balzo delle quotazioni abbia iniziato a pesare sulla domanda, che è in costante discesa nel corso degli ultimi mesi.
Nonostante le forti vendite nel corso della settimana, il trend di medio periodo per la maggior parte delle commodities sembra essere ancora positivo, anche se la volatilità nei prossimi mesi potrebbe essere decisamente superiore. In primo luogo, a favorire le commodities dovrebbe essere la politica monetaria espansiva che dovrebbe continuare ad essere perseguita dalle principali banche centrali a livello internazionale. La Fed, ad esempio, per quanto possa interrompere a giugno il programma di acquisto di asset non dovrebbe alzare i tassi almeno sino all’inizio del 2012. Tassi fermi per tutto l’anno sono attesi anche in Giappone e probabilmente in UK, mentre in area Euro, dove la BCE ha iniziato una fase di rialzo dei tassi in aprile, i tassi reali dovrebbero, comunque, restare negativi ancora a lungo. In tale scenario il costo opportunità di tenere delle commodities in portafoglio rimane basso aumentandone l’appetito da parte degli investitori.
Le commodities, inoltre, dovrebbero continuare a beneficiare delle attese che la politica monetaria espansiva delle banche centrali possa dare un’ulteriore spinta all’inflazione.
Come evidenziato dagli economisti del Fondo monetario internazionale Attiè e Roache nello studio “Inflation hedging for long term investors”, le commodities sono l’unica asset class in grado di proteggere il portafoglio degli investitori nel caso di un rialzo dell’inflazione, anche se per un periodo di tempo limitato. Inoltre, il rialzo del leading indicator cinese dell’OCSE negli ultimi mesi dopo la flessione di metà 2010 è il segnale di come l’economia cinese possa continuare a crescere ad un ritmo robusto nei prossimi mesi, sostenendo la domanda mondiale di commodities.
In questo scenario, in ottica di protezione del portafoglio, l’oro continua restare la commodity da preferire. In primo luogo perché, come evidenziato dagli economisti del Fondo monetario internazionale Roache e Rossi nello studio “The Effects of Economic News on Commodity Prices: Is Gold Just Another Commodity?” l’oro è l’unica commodities che può vantare il ruolo di bene rifugio e di riserva di valore.
In secondo luogo perché è quella che sembra raccogliere i giudizi più favorevoli da parte degli esperti di mercato. Ad esempio, John Paulson dell’hedge fund Paulson & Co ha previsto che le quotazioni dell’oro possano salire a USD4000 dollari all’oncia entro tre anni. Insomma, il ribasso dell’ultima settimana non modifica la considerazione che detenere una percentuale intorno al 5% del proprio portafoglio, in linea con quanto consigliato da molti esperti a livello internazionale, sia una scelta giusta.

mercoledì 4 maggio 2011

Corsa ad ostacoli per l'economia Giapponese

Probabilmente le agenzie di rating non hanno più lo stesso prestigio del periodo pre-crisi, ma le loro parole sono comunque ascoltate con attenzione dai mercati. Per questo motivo la revisione in settimana dell’outlook da stabile a negativo del rating di AA- da parte di Standard & Poor’s ha avuto l’effetto di riportare l’attenzione dei mercati sul paese del Sol levante. L’agenzia di rating statunitense ha evidenziato come i costi per la ricostruzione, che stima in USD611bn, possano mettere ulteriormente sotto pressioni i conti pubblici ed ha avvertito che un downgrade è possibile in mancanza di un piano di consolidamento fiscale. Potrebbero così aumentare le pressioni sul Primo Ministro Naoto Kan per alzare le tasse, anche se difficilmente nel breve potrebbe essere presa una decisione in tal senso per non correre il rischio di rallentare ulteriormente la crescita economica. Lo stesso Kan ha, però, avvertito che una decisione in tal senso potrebbe essere presa nei mesi a venire. In particolare, come evidenziato dagli economisti di Societè Generale in un report in settimana, potrebbe essere opportuno aumentare la tassa sui consumi (la nostra IVA) a partire dal prossimo anno, in modo da incrementare le entrate fiscali in futuro da una parte e dall’altra di favorire i consumi nel breve. Nei prossimi mesi, infatti, la domanda interna potrebbe essere debole per la bassa fiducia dei consumatori a seguito dello shock del terremoto, mentre dal prossimo anno ci potrebbe essere un’accelerazione grazie all’opera di ricostruzione. Una tassa sui consumi a partire dal prossimo anno incentiverebbe la domanda nel breve, con un effetto contenuto l’anno successivo.
Per ora, il Governo si è limitato a presentare la scorsa settimana un extra-budget di circa 4 mila miliardi di Yen per l’opera di ricostruzione, che potrebbe essere seguito da ulteriori stanziamenti nei prossimi mesi.
Nel breve, sono stati molto più preoccupanti i dati economici pubblicati in settimana, i primi che hanno iniziato a risentire del terremoto dell’11 marzo. Ad esempio la produzione industriale si è contratta nel mese di marzo di oltre il 15% m/m contro il -10% m/m atteso dal consensus, le spese personali dell’8.5% m/m contro attese a -7% m/m e le costruzioni di nuove case del 2.4% m/m contro attese a -1% m/m. Tali dati aumentano le possibilità che il primo trimestre possa marcare ufficialmente l’entrata in recessione dell’economia nipponica, che si era già contratta dello 0.7% q/q nell’ultimo trimestre del 2010. Anche la Banca Centrale Giapponese (BoJ) ha preso atto delle minori prospettive di crescita del paese rivedendo al ribasso la propria stima sulla crescita del Pil dell’anno fiscale in corso iniziato l’1 aprile portandola dall’1.6% allo 0.6%. In una nota di ottimismo, però, le autorità monetarie nipponiche hanno rivisto al rialzo la stima per l’anno fiscale successivo che inizierà ad aprile 2012 portandola dal 2% al 2.9% grazie all’opera di ricostruzione, che il Governo ha stimato possa aumentare il numero degli occupati di oltre 200 mila unità. A confortare sule prospettive di crescita futura del paese sono da una parte i segnali che la produzione potrebbe tornare a crescere già a partire dal mese di aprile (le stime degli industriali vedono un incremento del 3.9% m/m in aprile e del 2.7% m/m in maggio) e, soprattutto, che la distruzione della capacità produttiva di energia potrebbe essere inferiore a quanto temuto nelle giornate seguenti il terremoto.
In settimana, la BoJ non ha accolto la proposta di uno dei membri del comitato di politica monetaria di aumentare il programma di acquisto di asset sul mercato di altri 5 mila miliardi di Yen dopo che questo era già stato raddoppiato a 10 mila miliardi di Yen subito dopo il terremoto. Il presidente della BoJ Maasaki Shirakawa ha spiegato che le difficoltà economiche del paese derivano ora da problemi dal lato dell’offerta e non della domanda e che, di conseguenza, un nuovo alleggerimento della politica monetaria avrebbe avuto un impatto limitato sulla crescita.
Anche se la crescita economica giapponese potrebbe essere più del previsto nel breve, l’impatto sull’economia mondiale potrebbe essere limitato. In un report apparso in settimana sul sito voxeu.org “Japan's earthquake and tsunami: International trade and global supply chain impacts” alcuni economisti della World trade organization hanno evidenziato come l’impatto sul commercio internazionale del terremoto in Giappone potrebbe essere limitato.
Di questo sembrano avere preso atto anche i mercati finanziari, che hanno prestato poca attenzione alle notizie provenienti dal Giappone in settimana. Lo stesso mercato azionario nipponico ha risentito in maniera contenuta sia del giudizio negativo di Standard & Poor’s sia dei dati economici negativi chiudendo la settimana con un progresso dell’1.7%. Il Nikkei ha così mostrato un recupero anche nei confronti degli altri mercati azionari asiatici, anche se è presto per considerare tale maggiore forza relativa l’inizio di un trend duraturo.
La debolezza dello Yen ha, però,fatto sì che per gli investitori europei il guadagno sia stato limitato allo 0.4%. Con lo Yen che dovrebbe continuare a restare debole ancora a lungo, in particolare qualora il G7 dovesse confermare anche in futuro la propria intenzione di non permettere forti guadagni della valuta per favorire le esportazioni nipponiche, gli investitori europei potrebbero continuare a vedere i progressi del mercato azionario limitati dall’andamento della valuta. Quindi, anche se il Nikkei potrebbe estendere il recupero nei prossimi mesi, in particolare nel caso di una prosecuzione del trend positivo dei principali indici azionari, riteniamo che i mercati dei paesi sviluppati, ed in particolare quelli europei, siano da preferire in questa fase di mercato.
Ancora meno interessanti sono i bond giapponesi. Il basso livello dei rendimenti, le incertezze sullo stato dei conti pubblici e le possibilità di un calo della valuta sconsigliano di prendere qualsiasi posizione sui titoli del debito nipponici.
Per questo motivo, per quanto l’economia giapponese potrebbe recuperare nei prossimi mesi, i mercati finanziari del paese non sembrano avere per il momento alcun fattore di interesse per gli investitori europei.