mercoledì 27 luglio 2011

Il mio ultimo articolo su seekingalpha

Un sospiro di sollievo dal Pil inglese

Che i mercati si aspettassero delle sorprese negative dal dato sul Pil inglese del secondo trimestre lo si capisce dalla reazione della Sterlina contro l’Euro nel momento della pubblicazione del dato: la valuta britannica ha guadagnato lo 0.4%, estendendo il progresso nelle ore successive. Non male come risposta a un dato che in definitiva è uscito in linea con le attese del consensus degli economisti: +0.2% q/q e +0.7% y/y, la variazione annua più bassa dal primo trimestre del 2010. A dare fiducia ai mercati è stata probabilmente la dichiarazione dell’Ufficio Nazionale di Statistica secondo cui al netto degli effetti straordinari delle vacanze extra a causa del matrimonio reale, del terremoto in Giappone, delle prime vendite dei biglietti per le olimpiadi e delle condizioni meteorologiche sfavorevoli al settore delle utility la crescita sarebbe stata dello 0.7% q/q. L’andamento delle singole voci all’interno del Pil non ha dato un quadro chiaro sulle prospettive di crescita dell’economia britannica. La produzione industriale è crollata dell’1.4% q/q, penalizzata dalla contrazione del 6.5% nel settore minerario e del 3.2% nel settore delle utility, ma anche il settore manifatturiero ha registrato una contrazione dello 0.3% q/q, segnale di come il comparto non riesca a beneficiare della debolezza della Sterlina nei confronti dell’Euro. Il settore dei servizi e delle costruzioni, invece, hanno registrato una crescita dello 0.5% q/q.
Quel che lascia in eredità il dato sul Pil del secondo trimestre è un’economia che fatica a trovare un sentiero di crescita sostenibile: negli ultimi nove mesi, infatti, l’economia britannica è rimasta sostanzialmente invariata considerando che nell’ultimo trimestre del 2010 si era contratta dello 0.5% q/q prima di rimbalzare dello 0.5% q/q in Q1 ’11. A parere degli esperti anche nella seconda parte dell’anno non ci dovrebbe essere un forte rimbalzo dell’economia, in linea con l’andamento degli indicatori anticipatori: sia il PMI manifatturiero sia quello relativo al settore dei servizi si sono portati in giugno su valori in linea con una crescita solo moderata nei prossimi mesi.
Questo potrebbe fare sì che il Governo debba rivedere al ribasso la propria stima sulla crescita del Pil nel 2011 attualmente all’1.7%, portandola in linea con quella del consensus degli economisti dell’1.3%. La crescita inferiore alle attese non dovrebbe, però, avere un impatto sulle decisioni in materia economica del Governo, che dovrebbe andare avanti nel suo piano di austerity nonostante alcuni esperti attribuiscano proprio alla stretta fiscale il motivo della debolezza dell’economia. Il cancelliere dello scacchiere Osborne, commentando il dato sul Pil, ha detto che abbandonare il piano di austerity avrebbe detto conseguenze molto negative sulla crescita. Tanto più che il paese rischia di perdere il proprio rating di tripla A secondo gli esperti a causa dell’elevato deficit pubblico.
La debolezza economica dovrebbe fare sentire i propri effetti anche sulla politica monetaria, con la Bank Of England che dovrebbe mantenere i tassi invariati allo 0.5% ancora a lungo: i tassi sul mercato monetario non scontano un rialzo prima della fine del primo trimestre del 2012. Tuttavia, con l’inflazione ancora ben sopra l’obiettivo del 2%, anche un nuovo programma di allentamento quantitativo prima della fine dell’anno sembra alquanto improbabile.
In questo scenario, e considerando che la BCE potrebbe alzare ulteriormente i tassi di 25bp in ottobre portandoli all’1.75%, il differenziale sui tassi di interesse dovrebbe continuare ad essere favorevole alla valuta unica europea. Per questo motivo la Sterlina dovrebbe continuare ad indebolirsi in un’ottica di medio periodo contro l’Euro.

lunedì 25 luglio 2011

I mercati festeggiano, per ora…

Alla fine i mercati hanno avuto quel che volevano. Dopo che per settimane investitori ed esperti di mercato avevano chiesto ai leader dell’unione europea l’approvazione di un piano forte per il salvataggio della Grecia, al termine della riunione di Giovedì 21 è finalmente arrivata una risposta che potrebbe porre fine ai timori sulla crisi del debito dei paesi periferici dell’area Euro per diversi mesi. Questo non tanto perché con l’allungamento della durata dei prestiti a Grecia, Portogallo ed Irlanda da 7 anni a 15/30 anni e l’abbassamento dei tassi di interesse al 3.5% per questi paesi sarà più facile rispettare i propri impegni di risanamento, quanto piuttosto per la decisione di prevedere misure a favore anche di altri paesi, in particolare Spagna e Italia. Il nuovo piano, infatti, prevede che nel caso ce ne fosse bisogno il Fondo di stabilità finanziario europeo (EFSF) possa intervenire in maniera preventiva sia intervenendo sul mercato secondario d’accordo con la BCE per evitare rischi di contagio, sia ricapitalizzando le banche anche di paesi non in fase di salvataggio attraverso prestiti ai Governi. Unica incognita su questo aspetto è che la riforma dovrà essere approvata da tutti i Parlamenti dell’area Euro e quindi non sarà definitivo ancora per alcuni mesi.
Nota saliente è che il nuovo piano di salvataggio della Grecia del valore complessivo di EUR109bn prevede il coinvolgimento anche del settore privato, il cui contributo dovrebbe essere di circa EUR37bn attraverso un rollover dei titoli attualmente in portafoglio. Il settore bancario, a seguito di tale manovra, potrebbe registrare perdite pari a EUR20.6bn.
Questo dovrebbe spingere tutte le agenzie di rating a dichiarare un default selettivo per il paese, come fatto da Fitch venerdì 22, ma tale eventualità non sembra più fare paura alle autorità europee. La stessa BCE potrebbe continuare ad accettare i titoli greci come collaterale nelle operazioni di rifinanziamento.
Il favore con cui i mercati hanno accolto tale accordo è stato evidente sin da giovedì, quando sui mercati erano iniziate a circolare le prime indiscrezioni sull’esito della riunione dei leader europei. I rendimenti dei decennali italiani e spagnoli sono scesi di quasi 70 punti base e le borse dei paesi periferici hanno festeggiato con dei rialzi nell’ordine del 4%. Ancora più positiva è la stata la reazione dei titoli bancari, con Unicredito ed Intesa rimbalzate di circa il 10%, e di titoli quali Enel e Telecom Italia, penalizzati in precedenza dai timori di costi di rifinanziamento maggiori.
Nonostante la forza del rally nelle ultime due sedute, il rimbalzo sia del mercato azionario sia di quello obbligazionario potrebbe proseguire anche nelle prossime settimane, salvo il caso di un precipitare della situazione in USA, dove un accordo per l’innalzamento del livello del debito pubblico sembra ancora lontano incrementando i rischi di un default temporaneo della maggiore economia mondiale. Il decennale italiano, ad esempio, rimane ancora ben sopra il 5%, livello sotto cui si era mosso per diversi mesi prima dell’intensificarsi dei timori sullo stato dei conti pubblici italiani e sulla situazione politica. Anche il mercato azionario italiano non ha interamente recuperato quanto perso in giugno e luglio, mentre il settore bancario rimane ben sotto i valori di inizio anno.
Smaltita l’euforia per l’approvazione del piano, i mercati potrebbero, però, puntare i fari sulle sue debolezze. In particolare tra gli economisti delle investiment bank iniziano già a serpeggiare i timori che il fondo di stabilità finanziario possa non essere sufficiente qualora dovessero rendersi necessari degli interventi precauzionali a favore di Spagna ed Italia. Questi ultimi due paesi, del resto, potrebbero vedere come un’ingiustizia il fatto che i loro tassi di finanziamento sui mercati siano decisamente più alti di quelli dei paesi salvati dall’Unione Europea. Si renderebbe, quindi, necessario abbassare i tassi a lungo termine anche di questi paesi, con interventi che sarebbero molto costosi sui mercati. Certo, a tal fine ci potrebbero essere degli interventi della BCE, sull’esempio di quanto fatto dalla Fed statunitense negli anni ’50 quando aveva fissato il decennale al 2.5%, ma le autorità monetarie di Francoforte non sembrano affatto intenzionate a fare interventi di questo tipo.
Secondo Silvio Peruzzo di RBS il fondo andrebbe portato ad EUR2bn. A quei livelli, però, e con alle spalle solo le garanzie dei paesi nordici, per il fondo sarebbe difficile mantenere il rating di tripla A e quindi anche il suo costo di finanziamento sui mercati potrebbe aumentare. La società di ricerca Bernstein ha evidenziato come la Germania, nel caso in cui Spagna ed Italia dovessero arrivare a fare affidamento solo sull’EFSF per finanziarsi, potrebbe essere chiamata a fornire garanzie pari al 32% del proprio Pil, con la possibilità che queste possano salire al 56% qualora anche la Francia dovesse subire un downgrade. In questo scenario si capisce come i rendimenti dei titoli tedeschi siano saliti nelle ultime due sedute della settimana anche se parte di questo movimento può essere spiegato con la minore avversione al rischio da parte degli investitori.
Tuttavia il maggiore rischio sulla riuscita del piano di salvataggio dei paesi periferici dell’area Euro è costituito da un rallentamento della crescita economica. I PMI manifatturieri e l’IFO tedesco pubblicati in settimana hanno evidenziato come l’economia dell’area Euro possa andare incontro ad un rallentamento dei prossimi mesi. Questo renderebbe più difficile per i paesi periferici rispettare gli obiettivi di riduzione del debito nei prossimi anni poiché la crescita economica potrebbe essere più debole del previsto. Inoltre, con un’economia in rallentamento sarebbe più difficile per i governi di quei paesi che più andrebbero a pagare per il salvataggio dei paesi periferici fare accettare tale manovra ai propri cittadini.
Con queste prospettive e nonostante il rimbalzo nelle ultime sedute dei mercati periferici, la scelta più idonea in un’ottica di investimento di medio periodo sembra quella di continuare a puntare sul mercato azionario tedesco e, per diversificare fuori dall’area Euro, su quello statunitense. Tra i maggiori indici azionari internazionali, infatti, solo il Dax e lo S&P500 sono all’interno di un trend positivo mentre la borsa italiana resta in un trend negativo: in attesa di conferme, quello in corso rischia di essere solo un rimbalzo momentaneo.

venerdì 22 luglio 2011

Quanti dubbi sull’economia cinese

È stata un’estate turbolenta finora per i mercati finanziari che hanno dovuto fare i conti con l’aggravarsi delle tensioni sul debito pubblico dei paesi periferici dell’area Euro e con il tira e molla del Congresso statunitense sull’incremento della soglia del debito a stelle e strisce che ha messo a repentaglio il rating di tripla A del paese. In questo scenario le uniche notizie positive sono arrivate dalla Cina, la cui economia ha dimostrato di continuare a correre ad un buon ritmo nonostante i timori di un suo rallentamento manifestati da alcuni economisti. Il segnale più positivo in tal senso è stata la pubblicazione del dato sul Pil del secondo trimestre dell’anno, risultato superiore alle attese con una crescita del 9.5% y/y contro le stime di consensus per un incremento del 9.2%. A sorprendere gli economisti è stato, però, soprattutto l’incremento trimestrale del 2.2% in termini destagionalizzati, che è stato superiore al 2.1% del primo trimestre, mostrando un’inaspettata accelerazione del tasso di crescita.
Ancora una volta sono stati gli investimenti a trascinare l’economia cinese, con un contribuito alla crescita del 5.1%, mentre i consumi hanno contribuito con il 4.6% mentre la domanda estera netta ha sottratto lo 0.1%. In tale prospettiva non stupisce il balzo della produzione industriale, cresciuta in giugno al ritmo maggiore dell’ultimo anno: +1.5% m/m e +15% y/y.
Questi dati hanno permesso di mettere in soffitta, per il momento, i timori legati alle prospettive di crescita nella seconda parte dell’anno, anche se la discesa del PMI manifatturiero nel mese di luglio sotto la soglia di 50 non fa dormire sonni tranquilli. La pubblicazione ieri del leading indicator del Conference Board di maggio ha confermato come la crescita economica dovrebbe proseguire ad un buon ritmo nella seconda parte dell’anno: l’indice, che è costruito per anticipare la crescita di sei mesi è, infatti, salito dello 0.5% m/m, dopo il +0.1% m/m di aprile ed il +0.9% m/m di marzo. Alla luce degli ultimi positivi dati economici la stima del Fondo monetario internazionale di un’espansione del Pil cinese del 9.6% potrebbe, così, rivelarsi troppo pessimistica.
Il miglioramento delle aspettative sulla crescita economica cinese si sono riflessi in un rimbalzo delle quotazioni delle commodities, ed in particolare del rame, e del mercato azionario cinese.
Tuttavia, anche con riferimento all’economia cinese non mancano i motivi di preoccupazione. In primo luogo il governo è particolarmente impegnato per riportare sotto controllo l’inflazione, salita in giugno dello 0.3% m/m e del 6.4% y/y contro un obiettivo per il 2012 del 4%. Nonostante la Banca Centrale cinese abbia alzato i tassi ad inizio luglio per la quinta volta negli ultimi 8 mesi, portando i tassi sui depositi al 3.5% e quelli sui prestiti al 6.56%, ed il livello delle riserve da detenere presso la banca centrale al 21.5%, la politica monetaria restrittiva potrebbe proseguire anche nei prossimi mesi. La principale novità, però, è rappresentata da un diverso orientamento sull’andamento del tasso di cambio. L’amministrazione statale sui tassi di cambi, dopo avere permesso allo Yuan di salire al massimo degli ultimi 17 anni contro il Dollaro statunitense in settimana, ha evidenziato come l’apprezzamento della valuta non esponga a delle perdite reali del valore delle riserve, salite nel secondo trimestre al livello record di USD3.197bn, pari a circa il 50% del Pil cinese lasciando intendere che queste non rappresentano un ostacolo ad ulteriori progressi della valuta. Le autorità cinesi potrebbero, così, decidere nella seconda parte dell’anno di permettere un apprezzamento più sostenuto della valuta per contenere le pressioni inflazionistiche.
Un altro motivo di preoccupazione è lo stato di salute del comparto immobiliare. Nel corso degli ultimi anni il comparto immobiliare ha registrato un vero e proprio boom, raggiungendo un punto in cui le attività nel settore delle costruzioni non sono più sostenibili. Ad esempio gli analisti di Societè Generale hanno evidenziato come il consumo di cemento annuo per persona in Cina sia quattro volte superiore alla media mondiale e come siano costruite nuove abitazioni per 60 milioni di persone all’anno. Con le autorità che stanno cercando di rallentare lo sviluppo del settore mettendo ulteriori restrizioni agli acquisti speculativi ed in rallentamento della crescita dei prezzi che potrebbe frenare i nuovi acquisti, le possibilità di un crollo del settore stanno aumentando.
Questo potrebbe avere conseguenze negative sul settore finanziario, in particolare su quella parte attualmente non regolamentato. Le piccole e medie imprese, infatti, sono state tagliate fuori dall’accesso al credito dai canali ufficiali e si sono dovuti rivolgere a canali alternativi quali fondi di investimento e prodotti per retailer ad alto rendimento. Se questo, da una parte, ha distorto la concorrenza a favore dei grandi gruppi immobiliari, dall’altra potrebbe fare sì che in caso di una grossa crisi del comparto immobiliare possa avere effetti negativi su una parte del sistema finanziario fuori dal controllo delle autorità.
Infine è l’elevato debito locale a far correre alla Cina i rischi di una crisi finanziaria. Secondo le statistiche governative le amministrazioni locali avrebbero collezionato a partire dal 2009 debiti pari al 30% del Pil e difficilmente potrebbero essere in grado di ripagarli senza un intervento governativo, la cui maggiore preoccupazione è quella di bloccare questo trend al rialzo dell’indebitamento.
Se dalla Cina, quindi, sono per ora giunte sorprese positive nel corso dell’estate, non è da escludere che anche da oriente possano arrivare a breve ulteriori fonti di incertezza.

martedì 19 luglio 2011

USA sull’orlo del baratro

Non sono solo i paesi periferici a sentire la pressione delle agenzie di rating: in settimana anche gli Usa hanno dovuto fare i conti con i giudizi negativi di Moody’s e Standard & Poor’s, anche se gli effetti sul mercato dei titoli di stato sono per il momento stati contenuti. Il rendimento del titolo a due anni è sceso in settimana sotto la soglia dello 0,4% mentre il decennale è rimasto ben sotto la soglia del 3%.
A preoccupare le agenzie di rating è l’impasse al Congresso nei colloqui per arrivare ad un accordo sull’innalzamento del livello massimo di debito consentito per legge, pari a 14.3 mila miliardi di Dollari. Tale livello è stato raggiunto in maggio ed obbliga da allora l’amministrazione ad attuare misure tampone per continuare nella propria gestione corrente senza superarlo. La legge per l’innalzamento del debito massimo dovrebbe essere accompagnata da una nuova legge di bilancio per i prossimi anni con un programma di riduzione del deficit, che sta correndo a livelli preoccupanti, ed è proprio su questo che lo scontro in Congresso si sta facendo molto forte.
Moody’s ha detto mercoledì 13 che gli USA potrebbero perdere il loro rating di tripla A per i rischi di un default di breve termine nel caso non fosse trovato un accordo entro il 2 agosto obbligando il Governo a non pagare gli interessi sul proprio debito e a bloccare i pagamenti di pensioni e stipendi pubblici. Il giorno seguente è stata Standard & Poor’s ad avvertire che ci sono il 50% di possibilità che il rating statunitense possa essere abbassato entro i prossimi tre mesi a causa delle incertezze sul fronte politico.
Lo stesso presidente della Fed Bernanke nel corso della sua audizione al Congresso si è dichiarato molto preoccupato dalle conseguenze che un default degli Usa potrebbe avere nei prossimi mesi: una crisi economica e una nuova recessione sarebbero inevitabili.
Le posizioni di democratici e repubblicani sembrano, però, difficilmente conciliabili. Se, infatti, un accordo di massima per una riduzione del deficit pari a quattro mila miliardi di Dollari nell’arco di dieci anni sarebbe stato raggiunto tra il presidente Obama ed il rappresentante dei repubblicani Boenher, le posizioni tra la base democratica, che vuole un incremento delle tasse e nessuna riduzione dei programmi di assistenza sanitaria attualmente sotto tiro, e quella repubblicana, contraria alle ipotesi di un rialzo delle tasse e favorevole solo ad un taglio dei costi, sono molto lontane. A dimostrazione del clima difficile tra le due parti, alcuni senatori repubblicani ritengono che anche la scadenza del 2 agosto non sia così tassativa e che sia stata enfatizzata dai democratici solo per aumentare l’urgenza dell’approvazione di un piano.
Nel caso in cui un accordo non sia raggiunto entro il 2 agosto la reazione dei mercati potrebbe essere molto negativa. Gli economisti citano come parametro di riferimento la bocciatura del primo piano Tarp per salvare il sistema bancario nel 2008, quando il mercato azionario perse il 10%, ma in questo caso la reazione potrebbe essere ancora più negativa. L’entrata in default, seppure momentanea, potrebbe spingere i rendimenti in forte rialzo per l’incremento del premio al rischio. Inoltre, la dichiarazione di default da parte delle agenzie di rating potrebbe obbligare alcune categorie di investitori, quali ad esempio fondi pensione e fondi comuni, a vendere i propri titoli sul mercato stante l’obbligo statutario di detenere solo titoli investment-grade in portafoglio. Ma soprattutto, sarebbe messo a repentaglio il ruolo di bene rifugio del Dollaro, forzando molti investitori internazionali a diversificare in altri asset e valute.
L’avvertimento nel corso degli ultimi giorni della Cina agli Usa a comportarsi con responsabilità va letto in proprio questo senso: con le autorità cinesi che stanno già diversificando le proprie riserve fuori dal Dollaro, in caso di default ci potrebbe essere un’accelerazione di questa tendenza. Si potrebbe, così, verificare una vendita generalizzata di tutti i gli asset denominati in Dollari, le cui conseguenze sui mercati finanziari sono difficilmente prevedibili. Proprio per questo gli analisti politici ritengono che alla fine una soluzione sarà trovata: nessuno, a loro parere, vorrà assumersi la colpa di fare entrare in default gli USA per la prima volta nella loro storia, anche se molti senatori e parlamentari non concordano su questo ottimismo.
Difficile è anche interpretare quale sarebbe la reazione della Fed nel caso la situazione dovesse precipitare e lo stallo al Congresso dovesse durare ben oltre il 2 agosto. Il presidente Bernanke, infatti, si è dimostrato contrario a un piano di stimolo monetario nel breve periodo a causa dell’elevato livello dell’inflazione, che in giugno è rimasta invariata al 3.6%, ma potrebbe essere costretta ad intervenire qualora la situazione sui mercati finanziari dovesse minacciare il sistema finanziario. Tuttavia lo scenario più probabile rimane quello che la Fed resterà fuori dai giochi per diversi mesi.
Quale che sia l’esito delle trattative nelle prossime settimane, quella che si sta giocando al Congresso in queste settimane è una partita dal cui esito potrebbe dipendere il futuro degli USA ben oltre il mese di agosto. Il risanamento dei conti pubblici statunitensi è, infatti, un obiettivo che va perseguito a tutti i costi. Secondo le stime del Congressional Budget Office il rapporto debito/Pil potrebbe raggiungere il 100% del Pil nel 2021e potrebbe raggiungere il 190% nel 2035%. Quel che più preoccupa è che gli USA potrebbero ben presto superare la soglia del 90%, sopra la quale gli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno dimostrato il debito pubblico inizia storicamente a frenare la crescita economica di circa l’1% all’anno. In quel caso bisognerebbe rivedere al ribasso tutte le proiezioni economiche sulla crescita non solo con riferimento agli Usa ma anche a livello internazionale.

venerdì 8 luglio 2011

Trichet alle prese con un’area Euro spaccata in due

Dalla riunione della BCE di ieri non erano attese grosse novità: i mercati si aspettavano un rialzo dei tassi di 25 punti base all’1,5% in linea con quanto dichiarato dal Presidente Trichet in giugno e così è stato. Non sono, però, mancate le sorprese di rilievo durante la conferenza stampa di Trichet successiva alla riunione: la BCE ha annunciato di sospendere l’applicazione del criterio del rating di credito minimo per i titoli usati come collaterali nelle operazioni di rifinanziamento con riferimento a tutti i titoli emessi dal Governo Portoghese. Le autorità monetarie dell’area Euro hanno in questo modo preso una contromossa immediata alla decisione dell’agenzia di rating Moody’s di downgradare i titoli portoghesi a spazzatura ad inizio settimana. La reazione iniziale dei mercati è stata euforica, con i principali indici saliti in maniera sostenuta, ed in particolare i titoli bancari, salvo poi ripiegare nel finale. La scommessa iniziale dei mercati è stata che la BCE prenderà decisioni analoghe anche nel caso del coinvolgimento di altri paesi nella crisi e che, comunque, le autorità monetarie faranno di tutto per evitare un allargamento della crisi aumentando il più possibile la liquidità sul mercato. La decisione della BCE, però, pur dando fiato alle banche portoghesi e diminuire le pressioni sul debito pubblico dei paesi periferici, non muta il quadro generale di incertezza legato alle prospettive dei conti pubblici negli anni a venire. Lo spettro di un default, in particolare della Grecia, continuerà ad aleggiare sui mercati ancora a lungo, con la BCE che si è detta contraria a tale evenienza, pur ribadendo che una decisione in tal senso è prettamente politica.
La riunione della BCE ha sancito una volta di più come l’area Euro sia spaccata in due. Da una parte ci sono i paesi periferici, che richiedono misure straordinarie di sostegno per potere continuare ad operare e per non correre il rischio di andare in default, dall’altra ci sono i paesi dell’area tedesca, che corrono ad un ritmo forte e necessitano di una politica monetaria restrittiva per non vedere le pressioni inflazionistiche salire in maniera eccessiva. Un segnale di forza dell’economia tedesca è arrivato proprio ieri dal rialzo superiore alle attese della produzione industriale nel mese di maggio: +1.2% m/m e +7.6% y/y contro attese di consensus a +0.8% m/m e 7.0% y/y. Il permanere dell’indice di fiducia delle imprese tedesche IFO a ridosso dei massimi storici è un segnale di come il settore industriale potrebbe continuare a correre ad un ritmo sostenuto anche nella seconda parte dell’anno, con la domanda interna che potrebbe compensare un calo delle esportazioni.
Pur non avendo fornito indicazioni specifiche in tal senso mascherandosi dietro l’espressione ufficiale che la BCE non si impegna in anticipo sulle mosse da prendere in futuro, Trichet ha dipinto un quadro economico tale da far pensare che la politica monetaria restrittiva possa continuare nei mesi a venire. Del resto l’andamento dei tassi stabiliti dalla BCE hanno un'influenza praticamente nulla sui tassi dei paesi periferici che si muovono solo sulla base delle prospettive di default e quindi un ulteriore rialzo dei tassi li potrebbe danneggiare in maniera solo marginale. Il presidente della BCE ha ribadito ieri come l’inflazione sia ben sopra l’obiettivo del 2% e che i rischi siano al rialzo mentre, con riferimento allo scenario economico, ha evidenziato come, nonostante sia atteso un rallentamento nei prossimi trimestri, le prospettive restano positive seppure tra grosse incertezze. A conferma di quanto una prosecuzione della fase restrittiva sia possibile nei prossimi mesi, Trichet ha ribadito che nonostante il rialzo dei tassi deciso ieri la politica monetaria rimane espansiva. Lo scenario più probabile, quindi, in linea con quanto scontato dai futures sull’Euribor, rimane quello di un ulteriore rialzo dei tassi di 25 punti base in ottobre, che potrebbe essere seguito ad un ulteriore incremento della stessa entità in marzo. A quel punto, salvo il caso di una nuova impennata dei prezzi energetici, la politica monetaria potrebbe prendersi una pausa per il venire meno delle pressioni inflazionistiche, mentre solo un forte rallentamento dell’economia tedesca potrebbe costringere la BCE a rinunciare agli attesi rialzi dei tassi. Il mancato traino della locomotiva tedesca, però, farebbe a quel punto più danni all’area Euro di tassi più alti.

mercoledì 6 luglio 2011

Scenario sempre più complicato per la BoE

Inflazione in forte crescita ed economia in rallentamento: lo scenario peggiore per un banchiere centrale. Questo il quadro economico con cui si dovrà confrontare oggi la Bank of England nel corso della riunione mensile che dovrebbe concludersi con un nulla di fatto, in linea con quanto avviene dal novembre 2009. Solo con la pubblicazione delle minute della riunione odierna in calendario il prossimo 20 luglio si avranno maggiori indicazioni sulle prospettive della politica monetaria britannica nei prossimi mesi, anche se interventi di politica monetaria non sono attesi per tutta l’estate e probabilmente per il resto del 2011.
Lo scenario che deve affrontare la BoE rimane quanto mai incerto. Da una parte, infatti, c’è il forte rialzo dell’inflazione, che rimane sopra la soglia del 3% da 17 mesi consecutivi e potrebbe raggiungere il 5% nel corso dell’estate sulla base delle stesse stime della Banca centrale. Con queste premesse rinviare una politica monetaria restrittiva potrebbe essere pericoloso, come evidenziato da un recente report della BIS che esortava le autorità monetarie britanniche ad alzare i tassi subito.
Dall’altra parte, però, i segnali di rallentamento dell’economia si stanno facendo sempre più forti aumentando i timori sulla crescita economica nei mesi a venire. Dopo che l’economia britannica è rimasta piatta nel periodo che va dall’ultimo trimestre del 2010 al primo del 2011, il secondo trimestre dovrebbe vedere un’espansione molto contenuta – le stime degli analisti sono per un incremento dello 0.3% m/m – e i dati anticipatori pubblicati nelle ultime settimane evidenziano come la crescita potrebbe restare modesta anche nella seconda parte dell’anno. Un segnale in tal senso è arrivato dal PMI manifatturiero, che in giugno è rimasto poco sopra la soglia di 50 evidenziando come, nonostante la debolezza della Sterlina, il settore industriale potrebbe crescere ad un ritmo modesto nella seconda parte dell’anno. Del resto i problemi del settore sembrano essere più profondi e strutturali, come testimoniato dalla chiusura dello storico costruttore di treni Bombardier, ultimo rimasto in UK, con una perdita di 1400 posti di lavoro. Ma il vero punto di debolezza per l’economia britannica è l’andamento dei consumi, che dovrebbero continuare a soffrire per l’elevato indebitamento delle famiglie e per la perdita di potere d’acquisto dovuto al forte incremento dell’inflazione a fronte di salari sostanzialmente stabili. La crisi che sta colpendo i paesi periferici potrebbe essere un ulteriore ostacolo alla ripresa dell’economia britannica. In primo luogo perché l’area Euro è il principale mercato per le esportazioni del paese e potrebbero quindi risentire di un suo rallentamento. In secondo luogo perché le banche britanniche hanno un’esposizione consistente nei sistemi finanziari di questi paesi, ed in particolare dell’Irlanda, e potrebbero accusare delle perdite nel caso la situazione dovesse ulteriormente peggiorare.
Per questi motivi, preoccupati dalla perdurante debolezza della domanda interna, alcuni membri del Comitato di politica monetaria hanno evidenziato nel corso della riunione di politica monetaria di giugno che un’estensione del programma di acquisto di asset è un’opzione da tenere in considerazione nel caso di una discesa dell’inflazione nel medio periodo. Solo Adam Posen, però, aveva votato in quell’occasione a favore di un incremento de programma di acquisto di asset per GBP50bn, mentre Spencer Dale e Martin Weale avevano votato per alzare i tassi di 25 punti base.
Tuttavia difficilmente altri membri del Comitato di politica monetaria potrebbero decidere di cambiare schieramento. In particolare sembra difficile che qualche membro possa votare a favore di un’estensione del programma di acquisto di asset stante l’elevato livello d’inflazione. Come sottolineato dal Governatore King, infatti, questo potrebbe minare la credibilità della Banca Centrale.
In questo scenario la Sterlina potrebbe continuare a soffrire. Come evidenziato dagli ultimi dati del Chicago Mercantile Exchange, la Sterlina è diventata la valuta di finanziamento preferita dagli investitori internazionali, con le vendite sulla valuta che hanno raggiunto nella settimana al 28 giugno il proprio massimo da luglio 2010 . La valuta britannica risente delle attese che la BoE non alzerà i tassi per diversi mesi, soprattutto in considerazione del fatto che l’inflazione dovrebbe iniziare a scendere nella seconda parte dell’anno e che la crescita economica resterà debole, al contrario di quello che ha fatto la BCE. Inoltre, mentre la Fed è arrivata alla fine del proprio programma di allentamento quantitativo e ha dimostrato di non essere desiderosa di iniziarne uno nuovo nel breve, la BoE potrebbe decidere un nuovo intervento espansivo dei prossimi mesi nel caso un nuovo rallentamento economico.
Con il differenziale sui tassi di interesse che continuerà a restare negativo ancora molto a lungo e la volatilità che rimane bassa il trend negativo della Sterlina dovrebbe persistere a lungo.

E se in default andassero gli USA?

Lo stato dei conti pubblici continuerà ad essere una delle maggiori fonti d’incertezza nel corso dell’estate, nonostante l’approvazione del piano di austerity da parte della Grecia in settimana possa contribuire a diminuire le pressioni sui paesi periferici dell’area Euro. Nelle prossime settimane le attenzioni degli investitori potrebbero rivolgersi sugli USA, che corrono in rischio di non essere in grado di ripagare una tranche di titoli del debito a breve termine in scadenza il 4 agosto. Il governo degli USA, infatti, ha raggiunto lo scorso 16 maggio il livello massimo di indebitamento stabilito per legge, pari a 14.3 mila miliardi di Dollari, e da allora ha dovuto attuare delle misure tampone per continuare nella propria gestione corrente senza superare tale limite. Dopo il 4 agosto, però, queste misure tampone esauriranno il loro corso e se nel frattempo non sarà trovato un accordo in parlamento per alzare il limite massimo del debito, la macchina statale si bloccherà e il rimborso del debito in scadenza sarà impossibile.
Qualora questo dovesse avvenire, le agenzie di rating potrebbero prendere le loro contromosse. Standard & Poor’s, ad esempio, ha dichiarato che nel caso non venisse rimborsato il prestito taglierebbe il rating degli USA a “D” mentre Moody’s ha considerato un downgrade intorno ad Aa come lo scenario più probabile.
Le discussioni in parlamento tra l’amministrazione Obama e i democratici dalla una parte e i repubblicani dall’altra appaiono molto difficili. È stato, infatti, deciso che la legge per l’innalzamento del debito massimo sia accompagnata da una nuova legge di bilancio per i prossimi anni con un programma di riduzione del deficit, che sta correndo a livelli preoccupanti.
Secondo le ultime stime del Congressional Budget Office, il deficit dovrebbe portarsi ad un passo dalla soglia del 10% del Pil nell’anno in corso per poi scendere in maniera solo graduale negli anni a venire restando sopra la soglia del 3% per tutto il decennio. In questo scenario il debito pubblico detenuto dal pubblico dovrebbe salire dal 62% del Pil del 2010 sino ad oltre il 75% nel 2013.
Democratici e repubblicani, sono d’accordo sulla necessità di ridurre il deficit ma sono divisi sulle misure da attuare. Mentre i democratici sono favorevoli ad un incremento delle tasse, in particolare per la fascia più ricca della popolazione, i repubblicani spingono per un taglio delle spese.
La maggior parte degli osservatori di mercato ritiene che alla fine un accordo a metà strada tra le parti sarà trovato per evitare il default, anche se i timori aumenteranno con il passare dei giorni.
La decisione che sarà adottata dal parlamento non mancherà di avere conseguenze sui mercati finanziari ed in particolare sul mercato obbligazionario e quello valutario. La più immediata conseguenza dell’innalzamento del limite del debito dovrebbe essere quella di favorire un rialzo dei rendimenti dei titoli governativi. Nel corso delle ultime settimane, infatti, i rendimenti erano scesi a causa della mancanza sul mercato di nuove emissioni, costringendo gli investitori ad accettare rendimenti sempre più bassi pur di accaparrarsi i titoli in vendita. A contribuire al rialzo dei rendimenti, inoltre, dovrebbe essere anche la fine del programma di QE2 della Fed che farebbe venire meno un’importante fonte di domanda, anche se gli acquisti della banca centrale dovrebbero proseguire nei prossimi mesi. Secondo le stime degli esperti, la Fed comprerà comunque USD300m di titoli nei prossimi 12 mesi per il reinvestimento dei capitali in scadenza e degli interessi dei titoli in portafoglio.
L’effetto della decisione del Parlamento si dovrebbero fare sentire anche sul Dollaro, tornato in settimana sopra quota 1.45 contro l’Euro. In primo luogo tassi di rendimento dei governativi maggiori potrebbero aumentare l’appeal dei titoli USA per gli investitori internazionali, favorendone gli acquisti ed incrementando i flussi in entrata nel paese. In secondo luogo, un deficit di bilancio più basso di quello attualmente stimato avrà un effetto benefico sul Dollaro, che si è storicamente dimostrato sensibile all’andamento dei conti pubblici.
Una riduzione del deficit di bilancio, per quanto positiva nel medio periodo, potrebbe avere delle conseguenze negative sull’andamento della crescita economica nel breve periodo. In quest’ottica la politica monetaria della Fed potrebbe restare espansiva molto a lungo, con i tassi d’interesse reali che dovrebbero restare negativi. Quest’ultimo elemento si è storicamente dimostrato positivo per l’andamento dell’oro che, stante anche le incertezze sull’approvazione della legge di bilancio in parlamento, potrebbe offrire buone performance nel corso dell’estate.