martedì 19 luglio 2011

USA sull’orlo del baratro

Non sono solo i paesi periferici a sentire la pressione delle agenzie di rating: in settimana anche gli Usa hanno dovuto fare i conti con i giudizi negativi di Moody’s e Standard & Poor’s, anche se gli effetti sul mercato dei titoli di stato sono per il momento stati contenuti. Il rendimento del titolo a due anni è sceso in settimana sotto la soglia dello 0,4% mentre il decennale è rimasto ben sotto la soglia del 3%.
A preoccupare le agenzie di rating è l’impasse al Congresso nei colloqui per arrivare ad un accordo sull’innalzamento del livello massimo di debito consentito per legge, pari a 14.3 mila miliardi di Dollari. Tale livello è stato raggiunto in maggio ed obbliga da allora l’amministrazione ad attuare misure tampone per continuare nella propria gestione corrente senza superarlo. La legge per l’innalzamento del debito massimo dovrebbe essere accompagnata da una nuova legge di bilancio per i prossimi anni con un programma di riduzione del deficit, che sta correndo a livelli preoccupanti, ed è proprio su questo che lo scontro in Congresso si sta facendo molto forte.
Moody’s ha detto mercoledì 13 che gli USA potrebbero perdere il loro rating di tripla A per i rischi di un default di breve termine nel caso non fosse trovato un accordo entro il 2 agosto obbligando il Governo a non pagare gli interessi sul proprio debito e a bloccare i pagamenti di pensioni e stipendi pubblici. Il giorno seguente è stata Standard & Poor’s ad avvertire che ci sono il 50% di possibilità che il rating statunitense possa essere abbassato entro i prossimi tre mesi a causa delle incertezze sul fronte politico.
Lo stesso presidente della Fed Bernanke nel corso della sua audizione al Congresso si è dichiarato molto preoccupato dalle conseguenze che un default degli Usa potrebbe avere nei prossimi mesi: una crisi economica e una nuova recessione sarebbero inevitabili.
Le posizioni di democratici e repubblicani sembrano, però, difficilmente conciliabili. Se, infatti, un accordo di massima per una riduzione del deficit pari a quattro mila miliardi di Dollari nell’arco di dieci anni sarebbe stato raggiunto tra il presidente Obama ed il rappresentante dei repubblicani Boenher, le posizioni tra la base democratica, che vuole un incremento delle tasse e nessuna riduzione dei programmi di assistenza sanitaria attualmente sotto tiro, e quella repubblicana, contraria alle ipotesi di un rialzo delle tasse e favorevole solo ad un taglio dei costi, sono molto lontane. A dimostrazione del clima difficile tra le due parti, alcuni senatori repubblicani ritengono che anche la scadenza del 2 agosto non sia così tassativa e che sia stata enfatizzata dai democratici solo per aumentare l’urgenza dell’approvazione di un piano.
Nel caso in cui un accordo non sia raggiunto entro il 2 agosto la reazione dei mercati potrebbe essere molto negativa. Gli economisti citano come parametro di riferimento la bocciatura del primo piano Tarp per salvare il sistema bancario nel 2008, quando il mercato azionario perse il 10%, ma in questo caso la reazione potrebbe essere ancora più negativa. L’entrata in default, seppure momentanea, potrebbe spingere i rendimenti in forte rialzo per l’incremento del premio al rischio. Inoltre, la dichiarazione di default da parte delle agenzie di rating potrebbe obbligare alcune categorie di investitori, quali ad esempio fondi pensione e fondi comuni, a vendere i propri titoli sul mercato stante l’obbligo statutario di detenere solo titoli investment-grade in portafoglio. Ma soprattutto, sarebbe messo a repentaglio il ruolo di bene rifugio del Dollaro, forzando molti investitori internazionali a diversificare in altri asset e valute.
L’avvertimento nel corso degli ultimi giorni della Cina agli Usa a comportarsi con responsabilità va letto in proprio questo senso: con le autorità cinesi che stanno già diversificando le proprie riserve fuori dal Dollaro, in caso di default ci potrebbe essere un’accelerazione di questa tendenza. Si potrebbe, così, verificare una vendita generalizzata di tutti i gli asset denominati in Dollari, le cui conseguenze sui mercati finanziari sono difficilmente prevedibili. Proprio per questo gli analisti politici ritengono che alla fine una soluzione sarà trovata: nessuno, a loro parere, vorrà assumersi la colpa di fare entrare in default gli USA per la prima volta nella loro storia, anche se molti senatori e parlamentari non concordano su questo ottimismo.
Difficile è anche interpretare quale sarebbe la reazione della Fed nel caso la situazione dovesse precipitare e lo stallo al Congresso dovesse durare ben oltre il 2 agosto. Il presidente Bernanke, infatti, si è dimostrato contrario a un piano di stimolo monetario nel breve periodo a causa dell’elevato livello dell’inflazione, che in giugno è rimasta invariata al 3.6%, ma potrebbe essere costretta ad intervenire qualora la situazione sui mercati finanziari dovesse minacciare il sistema finanziario. Tuttavia lo scenario più probabile rimane quello che la Fed resterà fuori dai giochi per diversi mesi.
Quale che sia l’esito delle trattative nelle prossime settimane, quella che si sta giocando al Congresso in queste settimane è una partita dal cui esito potrebbe dipendere il futuro degli USA ben oltre il mese di agosto. Il risanamento dei conti pubblici statunitensi è, infatti, un obiettivo che va perseguito a tutti i costi. Secondo le stime del Congressional Budget Office il rapporto debito/Pil potrebbe raggiungere il 100% del Pil nel 2021e potrebbe raggiungere il 190% nel 2035%. Quel che più preoccupa è che gli USA potrebbero ben presto superare la soglia del 90%, sopra la quale gli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno dimostrato il debito pubblico inizia storicamente a frenare la crescita economica di circa l’1% all’anno. In quel caso bisognerebbe rivedere al ribasso tutte le proiezioni economiche sulla crescita non solo con riferimento agli Usa ma anche a livello internazionale.

Nessun commento:

Posta un commento